È l’altruismo ciò che ci rende davvero umani? Ci sono vantaggi nell’essere altruisti? Oppure l’altruismo non è mai disinteressato, e in fin dei conti non è altro che una forma superiore di egoismo? È la versione chic del buonismo più estremo?
Qui vi presento una definizione sintetica, qualche fatto e qualche studio recente. Poi, decidete voi. Io mi limito a suggerire che, in questi tempi in cui essere “cattivisti” va così di moda, e in cui ogni forma di altruismo rischia di essere etichettata come buonismo obsoleto e fallimentare, un pensierino in più sull’essere altruisti ci potrebbe anche stare.
Chiamiamo “altruistico”, dal latino alter (altro), l’atteggiamento e il comportamento di chi non si limita a conciliare il bene proprio con quello altrui (come dovrebbe fare ogni brava persona) ma si preoccupa del bene altrui a prescindere dal proprio, e lo fa affrontando un rischio o un costo, e senza attendersi alcuna ricompensa.
I livelli dell’altruismo
Un consistente articolo su Evolutionary Psychology distingue quattro forme, o livelli, di altruismo: quello ad alto costo, che consiste nel salvare una vita anche mettendo a rischio la propria (per esempio, entrando in un edificio in fiamme, o arrampicandosi su per un palazzo). Quello a medio costo, che implica un pesante sacrificio (per esempio, una donazione importante) ma non il rischio della vita. Quello a basso costo: l’altruismo di tutti i giorni, che consiste nell’offrire qualcosa di nostro a qualcuno.
Queste prime tre forme di altruismo sono incondizionate. E poi c’è una forma di altruismo quotidiano condizionato: fare un piccolo gesto generoso, aspettandosi che prima o poi sarà ricambiato.
Ehi: in tutti i casi, se non c’è un comportamento conseguente, il semplice atteggiarsi ad altruisti è pura ipocrisia. Una seducente messa in scena, e nient’altro.
In altre parole. Se vediamo un poveretto per strada (o in televisione) e ci accontentiamo di pensare a quanto ci dispiace per lui, non siamo altruisti, e nemmeno altruisti a basso costo: ci stiamo solo specchiando per un attimo nel caos che può impossessarsi di tutte le vite, compresa la nostra, per poi ritrarci con un brivido, affrettandoci a pensare ad altro. Un piccolo dono fatto senza distogliere lo sguardo (questa è la parte più difficile) sarebbe già un passettino in più.
Per fortuna un sacco di gente dona risorse personali anche importanti, compreso il proprio tempo. In Italia ci sono cinque milioni e mezzo di persone che fanno volontariato (quasi un italiano su dieci). C’è chi dona il proprio sangue. E perfino chi dona un rene a una persona sconosciuta: si chiama donazione samaritana. In Italia, fino a oggi, è successo sei volte. La prima volta nel 2015. Un gesto così potente e fuori da ogni schema che mi è sembrato necessario raccontarlo.
Allargare l’orizzonte
Auguste Comte, francese, sociologo e filosofo positivista, nella prima metà dell’ottocento teorizzava che l’altruismo è istintivo e che, spingendoci a cooperare e a proteggerci a vicenda, favorisce la conservazione della specie. Di fatto, ci viene più naturale essere altruisti con chi ci sta più vicino (i figli soprattutto, i consanguinei). A confermarlo è la teoria della selezione parentale (kin selection), che vale anche per gli animali, insetti sociali compresi.
Ma siamo anche più propensi a essere altruisti con chi ci appare più affine (gli amici) e con chi appartiene alla comunità, piccola o grande che sia, a cui anche noi sentiamo di appartenere. Infine, siamo più propensi a essere altruisti anche con chi percepiamo come più fisicamente somigliante a noi. La conseguenza è ovvia: più ampio è il nostro orizzonte più facilmente tenderemo a essere altruisti con un maggior numero di persone.
Roy Dolan, neuropsichiatra all’University College di Londra, intervistato da Avvenire ha detto: “Non sappiamo con precisione come la cultura, l’istruzione e le regole morali incidano sul comportamento altruistico. Quello che sappiamo è che se alcune precise aree del cervello subiscono un danno, questo incide sulla capacità di esprimere altruismo ed empatia. Sappiamo pure che la nostra bussola morale viene facilmente orientata dal contesto in cui viviamo, come hanno mostrato i famigerati esperimenti di Milgram, in cui le persone erano portate a ferire i propri compagni indifesi seguendo gli ordini di uno scienziato”.
Psychology Today elenca vantaggi e rischi dell’essere altruisti. L’altruismo è connesso con un accresciuto livello di endorfine (in sostanza: chi ha un comportamento altruistico si sente meglio), con il sentirsi soddisfatti e grati per ciò che si ha, con il ridimensionare i propri problemi, con il vivere più a lungo. Conviene però stare attenti a non farsi sovrastare o consumare dal proprio altruismo (il rischio burnout esiste, ed è concreto).
Infine, un piccolo approfondimento sul fatto che gli altruisti possano vivere più a lungo. A dirlo è uno studio compiuto su 865 persone sopra i 65 anni, e il motivo è meno esoterico di quanto possa sembrare: a tutti capita di subire eventi stressanti. Ma, e questo è il dato notevole, lo stress generato dagli eventi accresce significativamente il tasso di mortalità nei cinque anni successivi al trauma solo nelle persone che non aiutano mai gli altri. Per gli altruisti, la connessione con gli altri funziona da efficacissimo ammortizzatore.
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