Non è facilissimo rendersene conto (e, soprattutto, non è facilissimo continuare a ricordarsene): le cose non sono mai solo ed esattamente quello che sono.

“La mappa” (cioè, la nostra rappresentazione del mondo) “non è” il territorio (cioè, il mondo) “e il nome non è la cosa designata”, scrive Gregory Bateson in Mente e natura, citando il filosofo polacco Alfred Korzybski. Dovremmo ripetercelo mille volte al giorno (chi trova appassionante il tema di mappe e territori, qui trova una bella trattazione).

Vuol dire che le cose sono (anzi, diventano per noi, nel momento stesso in cui le prendiamo in considerazione) la rappresentazione e poi il racconto che noi ce ne facciamo, o che altri ne fanno e che noi interiorizziamo rendendolo nostro, e che consolidiamo trasmettendolo ad altri ancora.

Il racconto del dato numerico
Per inciso, è questo il motivo per cui un ascolto onesto e privo di pregiudizi del racconto altrui è il primo, indispensabile passo di ogni processo di mediazione e di decisione condivisa.

Ma torniamo al punto. Perfino un dato numerico diventa racconto nel momento in cui decidiamo di considerarlo rilevante ed evidenziarlo, lo etichettiamo indicandone il senso, lo interpretiamo connettendolo con altri dati in una narrazione coerente e credibile (ehi, notate che ho scritto “credibile”. Il che non significa “vera”).

Ovviamente, anche questo articolo è l’interpretazione di un insieme di dati. Anzi, un’interpretazione del nostro modo di interpretare. Tutto ciò lascerebbe il tempo che trova, se non riguardasse una conseguenza assai perversa, e pervasiva ai giorni nostri.

Su, diamole un nome, giusto per capirci, e chiamiamola: meccanismo del discredito.

Dicevamo: le cose al di fuori di noi non esistono per noi fino a quando non entrano nel nostro cono di attenzione. Ma, nel momento in cui ci entrano, smettono di essere solo se stesse e, nella nostra testa, cominciano a somigliare a ciò che ne pensiamo e ne raccontiamo noi. E a ciò che ne pensano e ne raccontano tutti gli altri. Così, per dirla con Bateson, lo stesso territorio può essere all’origine di infinite mappe e di narrazioni differenti.

Il meccanismo del discredito si attiva proprio modificando in modo strumentale e brutale le mappe (e le narrazioni che ne conseguono), e dunque la percezione dei territori e della realtà di chi si troverà esposto a quelle narrazioni.

Facciamo un esempio. Un qualsiasi tweet politicamente scorretto e feroce di Donald Trump (potete mettere al posto del nome “Donald Trump” qualsiasi altro nome di twittatore seriale e feroce) non riguarda esattamente la realtà, e questo è abbastanza chiaro a tutti, forse perfino ai più fedeli seguaci del twittatore medesimo.

Il punto è che il meccanismo del discredito è diventato pervasivo perché è facilissimo da attivare

Ma offre una nuova narrazione, che nel momento in cui è ripresa e diffusa “ha valore”, come ogni altra, non per quanto è veritiera e fedele, ma per il solo fatto di esistere in quanto narrazione. E per quanto, come narrazione, è potente, convincente e condivisa.

Più è semplificata, più è convincente. Più è bugiarda (questo ce l’ha detto il Mit) più è potente. Più è replicata, con minime variazioni (ed ecco il motivo dell’accanimento dei twittatori seriali), più risulta condivisa.

La disinformazione esiste da sempre. Le tecniche di manipolazione esistono da sempre. Disinformare è facile, e screditare è facilissimo. Nel (lontano, per il mondo del web) 2012 ho raccolto e descritto 27 modi per insultare e diffondere discredito in rete. Continuano a funzionare tutti alla perfezione, come hanno sempre funzionato. Non è questo il punto, oggi.

Il punto è che il meccanismo del discredito è diventato pervasivo perché è facilissimo da attivare. Non si inceppa mai. Si espande come una muffa su un formaggio avariato e sembra impossibile da interrompere. Vediamo per quali motivi.

  • Il meccanismo del discredito è facilissimo da attivare: si prende una caratteristica dell’antagonista, la si deforma e la si usa per etichettarlo con un marchio indelebile. Il Guardian elenca alcuni esempi trumpiani. Non è difficile trovarne molti nostrani, e analoghi. Non è nemmeno indispensabile che la caratteristica screditante sia scomoda o controversa. Basta incorniciarla, come spiega George Lakoff, in uno stereotipo negativo, trasformandola così in uno stigma. Dico “politico” ma evoco casta corrotta, dico “donna” ma evoco megera o sgualdrina, dico “intellettuale” ma evoco presuntuoso nullafacente, dico “imprenditore” ma evoco tiranno, dico “giornalista” ma evoco pennivendolo, dico “anziano” ma evoco rincoglionito, dico “giovane” ma evoco incompetente, dico “migrante” ma evoco… qui non c’è che l’imbarazzo della scelta.
  • Il meccanismo del discredito non si inceppa mai. Contrastare una narrazione screditante non fa che darle più forza. Contrapporle una narrazione non screditante non fa che darle uguale legittimità. Ignorare una narrazione screditante non fa che sottolineare la (colpevole?) impotenza di chi è screditato.
  • Il meccanismo del discredito si espande e sembra impossibile da interrompere. Screditare è più facile che argomentare, ed è un’opzione non solo obbligata ma vincente quando non si hanno buoni argomenti. È una scelta congruente con la semplificazione e la velocità dei nuovi media, e la loro orizzontalità: chiunque può screditare chiunque, e che ci vuole?
  • Corrisponde allo spirito rancoroso del tempo e lo gratifica, riduce l’ansia da complessità, attiva le emozioni (rabbia, paura) più forti e primordiali. Funziona benissimo, sempre, e questo fa sì che sia replicato e replicato.

L’unica consolazione è che il meccanismo del discredito è così vorace da contenere in sé la propria nemesi: quando tutto sarà screditato, non resterà che screditare chi scredita, fino a quando l’intera struttura narrativa non collasserà su se stessa.

Forse allora, finalmente, si potrà ricominciare a costruire mappe, e narrazioni, che abbiano un minimo di senso e aiutino a orientarci nella complessità dei territori che dobbiamo percorrere.

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