Ci capita di dover immaginare il futuro molto più spesso di quanto crediamo. E ci riusciamo molto meno bene di quanto pensiamo.
Si tratta di una capacità sofisticata, che ci è altamente utile come individui e come collettività. La pratichiamo ogni volta che prendiamo una decisione le cui conseguenze si manifesteranno nel tempo: dal pianificare le vacanze al decidere di sposarci o di cambiare lavoro, dal fare la spesa al mercato (che cos’altro mi servirà, oltre a uova cavoli e formaggio?), al sottoscrivere una proposta di investimento.
Questa stessa capacità la praticano i governi e le istituzioni quando compiono scelte di politica estera, economica, sociale, e le aziende quando stabiliscono una strategia di mercato. Ma, poiché governi, istituzioni e aziende sono guidati da esseri umani, i meccanismi che entrano in gioco non sono troppo diversi. Tra qualche decina d’anni, con la diffusione degli algoritmi che già sono molto presenti nei mercati finanziari, forse le cose cambieranno in modo radicale.
Ho scritto forse, perché anche quella che riguarda la diffusione degli algoritmi è una previsione sul futuro. E, dicevamo, immaginare bene il futuro non è così semplice. I motivi sono diversi, tutti interessanti. Conoscerli può aiutarci a prendere meglio le misure.
In primo luogo: oggi le neuroscienze ci confermano che le strutture neurali coinvolte nel ricordare e nel prevedere sono sostanzialmente le stesse.
Usiamo sempre le nostre memorie del passato quando ci tocca immaginare il futuro
Il legame strettissimo tra capacità di immaginare il futuro e memoria è confermato da un’evidenza inequivocabile: i pazienti che soffrono di amnesia e che, in seguito a un danno cerebrale, non riescono a ricordare il passato, non sono nemmeno in grado di immaginare, in qualsiasi forma, il futuro.
In sostanza, noi usiamo sempre le nostre memorie del passato quando ci tocca immaginare il futuro. Sembra paradossale, ma sono l’unica risorsa di cui disponiamo.
Così, immaginiamo quel che domani succederà in ufficio o a scuola a partire da ciò che è successo oggi, ieri e l’altro ieri. Quello che ci viene in mente, però, è un futuro che, proprio perché non è altro che una proiezione del passato, non cambia e non contempla mai nulla di totalmente inedito.
Due errori in un colpo solo
Compiamo un’operazione simile anche quando immaginiamo eventi futuri che non hanno analogie con nostre precedenti esperienze dirette, o che sono spostati molto avanti nel tempo: disponiamo i pezzi d’informazione che possediamo oggi (racconti altrui, dati e statistiche, memorie scolastiche, cronaca, fiction televisive…) in un puzzle pieno di spazi vuoti, e le cui tessere stanno insieme in modo approssimativo.
In teoria, più cose sappiamo, meno buchi ci sono, ma in pratica ci si mette di mezzo la sicumera (ne riparliamo tra qualche riga) e le cose non vanno granché bene.
Tra l’altro: così come ricordiamo più nettamente accadimenti del passato prossimo, sappiamo anche costruirci immagini più dettagliate del futuro prossimo. Quando ci allontaniamo nel tempo, in direzione o del passato o del futuro, tutto ci appare via via più sfuocato.
Non ci accorgiamo dei cambiamenti in peggio che possono riguardare il clima politico, i diritti civili, il rischio climatico o una relazione tossica
“È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”, dice il Nobel danese per la fisica Niels Bohr. Come capita spesso agli aforismi più suggestivi, l’affermazione è attribuita non solo a lui.
Un altro motivo per cui è difficile immaginare il futuro è che sottovalutiamo il compito: in sostanza, non ci rendiamo conto di quanto sia complesso e difficile.
Per esempio, siamo sempre convinti che le cose che si sono verificate in passato, specie se si tratta di eventi negativi, fossero altamente prevedibili. È il bias del “senno di poi”(hindsight bias).
I bias sono modi di pensare ingannevoli perché fondati su percezioni sbagliate. Nel caso del senno di poi, cercando a posteriori le cause di un evento che si è effettivamente verificato, noi oggi individuiamo molto più facilmente gli indizi premonitori, trascurando l’enorme quantità di dati tra i quali quegli indizi ieri se ne stavano nascosti. Quindi, facciamo due errori in un colpo solo: consideriamo che prevedere il futuro fosse facile, e restiamo convinti che continuerà a esserlo.
Le rane in salvo
E ancora. Tendiamo a sottovalutare l’impatto futuro dei cambiamenti che avvengono gradualmente. Tutto ciò ricorda la storia della rana che, messa in una pentola d’acqua fredda scaldata molto lentamente, non si accorge dell’aumento di temperatura e finisce bollita (in realtà, le rane vere saltano via e si mettono in salvo se tentiamo di bollirle).
Noi invece non ci accorgiamo, a patto che siano lenti, dei cambiamenti in peggio che possono riguardare il clima politico, i diritti civili, il rischio climatico o una relazione tossica.
E ancora. Tendiamo a sopravvalutare rischi immediati e facili di ricordare, anche se improbabili e a sottovalutare rischi più complessi, lontani nel tempo ma altamente probabili. Tendiamo anche a ritenere che i nostri gusti, le nostre propensioni e i nostri criteri di scelta in futuro resteranno identici a quelli d’oggi, perfino se siamo consapevoli di aver avuto altri gusti e altri criteri di scelta in passato. Infine tendiamo, in generale, a essere troppo ottimisti (per esempio, sui tempi necessari a ultimare un progetto e sui suoi costi).
E poi c’è la sicumera (overconfidence). È un’altra fallacia cognitiva, che porta chi si ritiene esperto o competente a essere troppo fiducioso in se stesso e troppo poco accurato nei suoi giudizi e nelle sue previsioni. Se volete divertirvi, date un’occhiata a questo elenco di previsioni sbagliate nei secoli, dalla scoperta dell’America al lancio dell’iPhone.
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