Il jazz libero di Ornette Coleman
“Tra i tanti nomi coniati in campo musicale, secondo me free jazz non era male. Io però non c’entro. Qualcuno mi ha sentito suonare, si è chiesto se conoscessi le scale e gli accordi, e nel dubbio ha deciso che stavo suonando free. Io non ho mai smentito. In fondo, questa definizione mi rendeva la vita più facile”.
Ornette Coleman, scomparso lo scorso 11 giugno, non amava parlare della sua musica in termini di genere e tanto meno di stile, eppure il disco che lo ha reso più famoso, quello che si è materializzato sul mercato discografico nel settembre del 1961 come una mina pronta per esplodere, si chiamava proprio così: Free jazz: a collective improvisation.
La detonazione era stata preannunciata dai cinque dischi precedenti, a partire da Something Else!!!! e con una serie di titoli che annunciavano in modo perentorio l’avvento del jazz del futuro: Tomorrow is the question!, The shape of jazz to come, Change of the century, This is our music. In copertina dell’album non c’era una fotografia dei musicisti ma una grande scritta con il titolo, il nome del gruppo e un ritaglio che mostrava una parte di un quadro di Jackson Pollock, riprodotto nella sua interezza nella parte interna dell’album. La musica era dirompente: un doppio quartetto che improvvisava liberamente per 37 minuti e 10 secondi senza riferimenti armonici o melodici su un canovaccio che indicava soltanto la sequenza dei solisti principali, introdotti volta per volta da brevissimi riff collettivi.
Free jazz divenne sinonimo di un modo di suonare e non era male come termine, anzi, era perfetto per l’epoca. Riassumeva con efficacia e sintesi non solo l’allontanamento radicale della musica da alcuni princìpi formali che avevano guidato il jazz dalla nascita, ma aderiva perfettamente ai movimenti di rivolta sociale, politica e razziale che chiedevano a gran voce il cambiamento.
Una tappa poetica
Il sesto disco di Ornette Coleman fu adottato come manifesto da alcuni e deriso da altri. Rimase un cruccio per il sassofonista che in dialogo con Jacques Derrida disse: “Tanti pensavano che per fare Free jazz avevo semplicemente preso il sassofono e suonato ciò che mi passava per la testa, senza alcuna regola, ma non è vero”. E in effetti quel disco, all’apparenza così programmatico, era sostanzialmente un’altra tappa di una poetica precisa, organica e riconoscibile: il jazz libero di Ornette Coleman.
Libertà da cosa? Tutto nasce, come a volte accade, da un errore. Ornette Coleman si ritrova con un sassofono in mano a quattordici anni e nel suo percorso di apprendimento da autodidatta nessuno gli dice che quello è uno strumento traspositore, ovvero che la stessa nota letta sul pentagramma da un sassofonista e da un pianista produce suoni di altezze diverse. Se non c’è un compositore che lo ha fatto per lui è compito del sassofonista sapersi adeguare trasportando la sua parte in un’altra tonalità.
Coleman non solo non lo fa, ma capito l’inganno continua dritto per la sua strada, avendo sviluppato la convinzione per cui non sono importanti le note in sé, ma il significato che gli si dà volta per volta. In questo senso in tutta la musica di Coleman, anche in Free jazz, ci sono molte cose che suonano familiari: il bebop, il blues, finanche la funzionalità dell’armonia tonale sono presenti nel segno di una polisemia sempre in movimento. Forse non è un caso se all’ascolto la musica appare sospesa, con quel sassofono interrogativo che non smette di dirci come le cose possano essere viste o ascoltate da tanti punti di vista.
Lo slittamento di significato nella comunicazione ha radici profonde nella cultura afroamericana, come strumento di libertà e testimonianza verbale dello sdoppiamento identitario che W.E.B. Dubois ha chiamato doppia coscienza. Nel pensiero di Ornette Coleman emergeva continuamente, attraversava il suo modo di ragionare e di parlare con un misto di laconicità, ironia e schiettezza non sempre decifrabile. È una lente attraverso cui si può leggere la sua musica ed è anche la chiave per capirne lo spirito rivoluzionario e radicale, quello di un’affermazione caparbia del diritto alla diversità.