Il 3 luglio 1988 l’incrociatore lanciamissili Vincennes, di stanza nel Golfo Persico, abbatté per errore un aereo di linea iraniano uccidendo 290 passeggeri civili. Quando gli chiesero di commentare l’incidente, George Bush primo, che all’epoca era impegnato nella campagna elettorale per la presidenza, dichiarò con sagacia: “Non chiederò scusa a nome degli Stati Uniti. Non mi importa come sono andati i fatti”. Non mi importa come sono andati i fatti. Una massima perfetta per il nuovo impero americano. Forse si può aggiungere una piccola variazione sul tema: i fatti possono andare come vogliamo noi.
Negli Stati Uniti il sostegno dell’opinione pubblica alla guerra contro l’Iraq si è basato su un cumulo di bugie e sotterfugi, coordinati dal governo e fedelmente amplificate dai media delle multinazionali. Oltre ai legami inventati fra Iraq e al Qaeda, c’è stato l’allarme preconfezionato sulle armi di distruzione di massa irachene. George Bush il piccolo è arrivato al punto di dire che sarebbe stato “suicida” per gli Usa non attaccare l’Iraq.
Era un allarme con uno scopo preciso. George W. Bush riproponeva una vecchia dottrina sotto una veste nuova: la dottrina del colpo preventivo, vale a dire gli Stati Uniti possono fare tutto quello che vogliono, e ormai questo è ufficiale.
La guerra contro l’Iraq è stata combattuta e vinta e non sono state trovate armi di distruzione di massa. Neanche la più piccola. Forse ce le dovranno mettere per scoprirle. E anche in questo caso, i più critici di noi vorranno sapere perché Saddam Hussein non le ha usate quando il suo paese è stato invaso. C’è chi chiede: cosa cambia se l’Iraq non aveva armi chimiche e nucleari? Cosa cambia se non ci sono collegamenti con al Qaeda? Cosa cambia se Osama bin Laden odia sia Saddam Hussein sia gli Stati Uniti? Bush il piccolo ha detto che Saddam Hussein era un “dittatore omicida”. Perciò – questo è il ragionamento – l’Iraq aveva bisogno di un “cambiamento di regime”.
Poco importa se quarant’anni fa la Cia, quando era presidente John F. Kennedy, contribuì a organizzare un cambiamento di regime a Baghdad. Nel 1963, con un colpo di stato, in Iraq arrivò al potere il partito Ba’ath. Usando elenchi forniti dalla Cia, il nuovo regime Ba’ath eliminò sistematicamente centinaia di medici, insegnanti, avvocati e personaggi politici noti per essere di sinistra.
Nel 1979, dopo una lotta interna al partito, Saddam Hussein diventò presidente dell’Iraq. Nell’aprile del 1980, mentre Saddam stava massacrando gli sciiti, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski dichiarò: “Non c’è una sostanziale incompatibilità tra gli interessi degli Stati Uniti e dell’Iraq”. Washington e Londra appoggiarono Saddam Hussein sia apertamente sia in segreto. Lo finanziarono, lo equipaggiarono, lo armarono e gli fornirono materiali che potevano essere usati per scopi civili ma anche per produrre armi di distruzione di massa.
Sostennero la guerra di otto anni contro l’Iran e il massacro del popolo curdo con il gas ad Halabja nel 1988. Crimini che quattordici anni dopo sono stati usati come ragioni per giustificare l’invasione dell’Iraq.
Tecnica efficace
Il punto è: se Saddam Hussein era tanto malvagio da meritare il tentativo di assassinio più complicato e annunciato della storia, allora sicuramente chi lo ha sostenuto dovrebbe almeno essere processato per crimini di guerra. Perché nell’infame mazzo di carte degli uomini e delle donne ricercate non figurano le facce dei funzionari di governo statunitensi e britannici? Perché quando è in gioco l’impero, i fatti non contano.
Sì, ma tutto questo fa parte del passato, ci dicono. Saddam Hussein è un mostro che deve essere fermato. E solo gli gli Stati Uniti possono fermarlo. È una tattica efficace: si usa l’urgenza morale del presente per oscurare i peccati diabolici del passato e i terribili piani per il futuro. Indonesia, Panama, Nicaragua, Iraq, Afghanistan – l’elenco si allunga sempre di più. Anche ora ci sono regimi brutali che sono finanziati – Egitto, Arabia Saudita, Pakistan, repubbliche dell’Asia centrale.
L’impero è in marcia, e Democrazia è il suo nuovo, astuto grido di guerra. Democrazia, consegnata a domicilio dalle bombe a grappolo. La morte è un prezzo modesto da pagare per assaggiare questo nuovo prodotto: democrazia imperiale precotta (far bollire, aggiungere petrolio, poi bombardare).
In questi ultimi mesi, mentre il mondo restava a guardare, l’invasione e l’occupazione americana dell’Iraq sono state trasmesse in diretta tv. Una civiltà di settemila anni è scivolata nell’anarchia. Prima che la guerra cominciasse, l’ufficio per la ricostruzione e l’assistenza umanitaria (Orha) ha inviato al Pentagono un elenco di sedici importantissimi siti da proteggere. Il museo nazionale era al secondo posto. Eppure il museo non è stato semplicemente saccheggiato, è stato profanato. Era il custode di un antico retaggio culturale. L’Iraq come lo conosciamo oggi faceva parte della Mesopotamia. La civiltà che fiorì sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate produsse la prima scrittura, il primo calendario, la prima biblioteca, la prima città del mondo e, proprio così, la prima democrazia. Il re di Babilonia, Hammurabi, fu il primo a codificare le leggi che regolavano la vita sociale dei cittadini. Era un codice in cui le donne abbandonate, le prostitute, gli schiavi e persino gli animali avevano dei diritti. Il codice di Hammurabi segna non solo la nascita della legalità, ma la prima intuizione del concetto di giustizia sociale. Il governo statunitense non avrebbe potuto scegliere una terra meno adatta per inscenare la sua guerra illegale ed esibire il suo grottesco disprezzo per la giustizia.
L’ultimo edificio nell’elenco dell’Ohra dei sedici siti da proteggere era il ministero del petrolio. È stato l’unico che ha ricevuto protezione. Forse l’esercito occupante pensava che nei paesi musulmani gli elenchi si leggessero al contrario? La sicurezza del popolo iracheno non era affare loro. La sicurezza dell’eredità culturale irachena o di quel che restava della sua infrastruttura non era affare loro. Ma la sicurezza dei giacimenti petroliferi iracheni sì. Certo che lo era. I giacimenti di petrolio sono stati “messi al sicuro” quasi prima che cominciasse l’invasione.
Tenuta fantasiosa
Il 2 maggio Bush il Piccolo ha aperto la sua campagna elettorale per il 2004 sperando di essere finalmente eletto presidente degli Stati Uniti. Con quello che probabilmente è stato il volo più breve della storia, un jet militare è atterrato su una portaerei, la Abraham Lincoln, attraccata vicinissima alla costa. Tanto vicina che stando all’Associated Press i funzionari dell’amministrazione hanno ammesso di aver “posizionato questa nave enorme in modo da fornire la migliore angolazione televisiva al discorso del presidente Bush, con lo sfondo del mare invece della costa di San Diego”.
Il presidente Bush, che non ha fatto il servizio militare, è emerso sul ponte con una tenuta fantasiosa – giubbotto militare, stivali da combattimento, occhialoni da pilota, casco. Salutando i soldati che lo acclamavano, ha ufficialmente proclamato la vittoria sull’Iraq. È stato attento a dire che si trattava “soltanto di una vittoria in una guerra al terrorismo… che continua ancora”.
Era importante evitare un esplicito annuncio di vittoria, perché in base alla convenzione di Ginevra un esercito vittorioso deve rispettare gli obblighi giuridici di una forza occupante, una responsabilità di cui l’amministrazione Bush non vuole farsi carico. E poi, quando le elezioni del 2004 saranno più vicine, per convincere gli elettori esitanti potrebbe essere necessaria un’altra vittoria nella “guerra al terrorismo”. La Siria è stata messa all’ingrasso in attesa di essere uccisa. La distinzione fra campagna elettorale e guerra, fra democrazia e oligarchia sembra scomparire rapidamente.
Un eufemismo
Secondo un sondaggio dell’istituto internazionale di ricerche Gallup, il consenso a una guerra condotta “unilateralmente dagli Stati Uniti e dai suoi alleati” non ha superato l’11 per cento in nessun paese europeo. Ma i governi di Gran Bretagna, Italia, Spagna, Ungheria e di altri paesi dell’Europa orientale sono stati elogiati per aver ignorato l’opinione della maggioranza dei loro cittadini e per aver sostenuto l’invasione illegale. Come si chiama questo? Nuova democrazia? Come il nuovo Labour della Gran Bretagna?
La democrazia, la vacca sacra del mondo moderno, è in crisi. Ed è una crisi profonda. In suo nome vengono commessi oltraggi di ogni genere. È diventata poco più di una parola senza valore, un guscio svuotato di contenuto e significato. Può essere tutto quello che volete. La democrazia è la puttana del mondo moderno, disposta a vestirsi, a spogliarsi, disposta a soddisfare tantissimi gusti, disponibile a farsi usare e abusare.
Le democrazie moderne esistono da abbastanza tempo perché i capitalisti neoliberali abbiano imparato come rovesciarle. Hanno perfezionato la tecnica di infiltrarsi negli organi democratici– la magistratura “indipendente”, la stampa “libera”, il parlamento – e piegarli ai loro scopi. Il progetto di globalizzazione delle multinazionali ha infranto le regole del sistema. Libere elezioni, una stampa libera e una magistratura indipendente significano ben poco dopo che il libero mercato le ha ridotte a merci in vendita al miglior offerente.
La democrazia è diventata l’eufemismo usato dall’impero per parlare del neocapitalismo liberale. La macchina della democrazia è stata efficacemente manomessa. Politici, baroni dei media, giudici, lobby aziendali e funzionari di governo si sovrappongono e si intrecciano in una complessa rete sotterranea che minaccia la struttura di controlli ed equilibri fra la costituzione, i tribunali, il parlamento, l’amministrazione e i mezzi di informazione indipendenti, che costituiscono la base di una democrazia parlamentare. In molti casi l’intreccio non né complesso né sottile.
Il capo del governo italiano Silvio Berlusconi, per esempio, ha una quota di controllo in importanti quotidiani, riviste, canali televisivi e case editrici. Negli Stati Uniti, Clear Channel Worldwide Incorporated è il più grande proprietario di emittenti radio del paese e controlla più di 1.200 canali. Il suo direttore generale ha versato centinaia di migliaia di dollari per la campagna elettorale di Bush. Ha organizzato comizi patriottici in favore della guerra in tutto il paese e poi ha spedito i suoi inviati a seguirli come se fossero notizie da prima pagina. L’era della creazione del consenso ha lasciato il passo all’era della creazione delle notizie.
Presto le redazioni rinunceranno alla finzione e cominceranno ad assumere direttori di teatro al posto dei giornalisti. Lo show business americano diventa sempre più violento e bellicoso e le guerre americane diventano sempre più simili allo show business, e sono già in corso alcuni incroci interessanti. Il progettista che ha costruito in Qatar il set da 250mila dollari usato dal generale Tommy Franks per allestire la sala stampa dell’operazione shock and awe ha costruito anche i set per la Disney, la Metro Goldwyn Meyer e lo show televisivo della Abc Good Morning America. È un’ironia crudele che gli Stati Uniti – il paese che vanta i difensori più appassionati della libertà di parola e (fino a qualche tempo fa) la legislazione più complessa per difenderla – abbiano ristretto così tanto lo spazio in cui tale libertà può esprimersi. In modo strano e complesso, le discussioni e il furore che accompagnano la difesa della libertà di parola in America mascherano la rapida scomparsa di questa libertà.
L’impero dei media americano è controllato da una minuscola cricca di persone. Il presidente della commissione federale per le comunicazioni Michael Powell, figlio del segretario di stato Colin Powell, ha proposto un’ulteriore deregolamentazione del settore che porterà a una concentrazione ancora maggiore.
E così eccola – la più grande democrazia del mondo, guidata da un uomo che non è stato eletto legittimamente. La corte suprema gli ha donato il suo incarico. Che prezzo ha pagato il popolo americano per questa presidenza illegittima?
Nei tre anni di mandato di George Bush il piccolo l’economia americana ha perso più di due milioni di posti di lavoro. Spese militari stravaganti, la privatizzazione dei servizi sociali e le riduzioni fiscali per i più ricchi hanno provocato la crisi finanziaria del sistema educativo degli Stati Uniti. Secondo un’indagine del consiglio nazionale sulle legislature statali, gli stati americani nel 2002 hanno tagliato 49 miliardi di dollari nei servizi pubblici – sanità, assistenza sociale, sussidi e istruzione. E quest’anno prevedono di tagliare altri 25,7 miliardi di dollari. Il totale è di 75 miliardi di dollari. La prima richiesta di bilancio di Bush per finanziare la guerra in Iraq è stata di 80 miliardi di dollari.
E allora chi paga per la guerra? I poveri dell’America. I suoi studenti, i suoi disoccupati, le sue ragazze madri, i pazienti dei suoi ospedali e della sua assistenza a domicilio, i suoi insegnanti e gli operatori sanitari. E chi sta veramente combattendo la guerra? Ancora una volta, i poveri dell’America.
I soldati che si arroventano sotto il sole del deserto iracheno non sono i figli dei ricchi. Solo uno fra tutti i membri della camera dei rappresentanti e del senato ha un figlio che combatte in Iraq. L’esercito di “volontari” degli Stati Uniti in realtà dipende dall’arruolamento di bianchi poveri, neri, latinoamericani e asiatici che cercano un modo per guadagnarsi da vivere e farsi un’istruzione. Le statistiche federali rivelano che gli afroamericani sono il 21 per cento del totale delle forze armate e il 29 per cento dell’esercito americano. Rappresentano solo il 12 per cento della popolazione. È paradossale la percentuale sproporzionata di afroamericani nell’esercito e nelle prigioni. Forse dovremmo giudicarla in modo diverso e considerarla un esempio di integrazione particolarmente efficace.
Quest’anno sarebbe stato il settantaquattresimo compleanno di Martin Luther King, e il presidente Bush ha denunciato il programma di affirmative action a favore dei neri e dei latinoamericani nell’università del Michigan. Lo ha accusato di essere un elemento di divisione e lo ha definito “ingiusto” e “incostituzionale”. Il tentativo riuscito di escludere i neri dalle liste di voto nello stato della Florida in modo che George W. Bush fosse eletto ovviamente non era né ingiusto né incostituzionale. Immagino che le leggi per l’integrazione a favore dei ragazzi bianchi di Yale siano sempre giuste e costituzionali.
I vantaggi della guerra
E così sappiamo chi paga per la guerra. Sappiamo chi la combatte. Ma chi ne beneficerà? Chi punta ai contratti per la ricostruzione, che secondo alcuni calcoli valgono fino a cento miliardi di dollari? Potrebbero essere i poveri, i disoccupati e i malati dell’America? Potrebbero essere le ragazze madri americane? Oppure le minoranze nere e latinoamericane? L’operazione Iraqi freedom, ci assicura George W. Bush, serve a restituire il petrolio dell’Iraq al popolo iracheno. Cioè a restituire il petrolio dell’Iraq al popolo iracheno attraverso le grandi multinazionali. Come Bechtel, Chevron, Halliburton.
Ancora una volta, c’è un legame stretto fra le leadership delle aziende, dei militari e del governo. La promiscuità, l’impollinazione incrociata è scandalosa. Pensate: l’ufficio per la politica della difesa è un gruppo di nomina governativa che fornisce consulenze al Pentagono. Il Center for public integrity di Washington ha scoperto che nove dei 30 membri di questo ufficio sono legati a società che fra il 2001 e il 2002 si sono aggiudicate contratti per la difesa del valore di 76 miliardi di dollari.
Uno di loro, Jack Sheehan, un generale dei marines in pensione, è vicepresidente della Bechtel, il gigante internazionale delle costruzioni. Riley Bechtel, presidente della società, è membro del consiglio per le esportazioni del presidente. L’ex segretario di stato George Shultz, anche lui membro del consiglio d’amministrazione del gruppo Bechtel, è presidente della commissione consultiva del comitato per la liberazione dell’Iraq. Quando il New York Times gli ha chiesto se era preoccupato per la possibilità di un conflitto di interessi, ha detto: “Non mi risulta che la Bechtel ne ricaverebbe vantaggi particolari. Ma se c’è del lavoro da fare, la Bechtel è il tipo di società che potrebbe farlo”. Secondo il Center for responsive policy, la Bechtel ha finanziato la campagna elettorale repubblicana con centinaia di migliaia di dollari.
Sorveglianza automatizzata
A corollario di questo sotterfugio c’è la legislazione antiterroristica americana. Il Patriot Act approvato nell’ottobre 2001 è diventato il modello per analoghe leggi antiterrorismo adottate in tutto il mondo. È stato approvato dalla camera con 337 voti contro 79. Il New York Times ha scritto che “molti deputati non hanno potuto discutere veramente e persino leggere il progetto di legge”.
Il Patriot Act apre un’era di sorveglianza automatizzata e sistematica. Cancella le distinzioni fra discorsi e attività criminali consentendo di giudicare gli atti di disobbedienza civile come altrettante violazioni della legge. Centinaia di persone vengono trattenute per un periodo di tempo indefinito in quanto “combattenti illegali” (in India sono migliaia. In Israele attualmente sono detenuti cinquemila palestinesi). I non-cittadini, ovviamente, non hanno nessun diritto. Si possono semplicemente far “sparire”, come i cileni ai tempi di un vecchio alleato di Washington, il generale Pinochet. Più di mille persone, in molti casi musulmani o di origini mediorientali, sono state arrestate, alcune non hanno neppure avuto diritto a un avvocato. Oltre a pagare i reali costi economici della guerra, il popolo americano sta pagando per queste guerre di “liberazione” con le sue stesse libertà. Per gli americani comuni, il prezzo della “nuova democrazia” in altri paesi è la morte della vera democrazia in patria.
Nel frattempo l’Iraq viene preparato alla “liberazione” (ma forse intendevano “liberalizzazione”?). Il Wall Street Journal ha scritto che “l’amministrazione Bush ha elaborato vasti progetti per ricostruire l’economia irachena sul modello degli Stati Uniti”. La costituzione dell’Iraq è in rifacimento. Le sue leggi commerciali, fiscali e le leggi sulla proprietà intellettuale vengono riscritte per trasformare il paese in un’economia capitalistica di stampo americano.
Ora che gli atti di proprietà vengono formalizzati, l’Iraq è pronto per la nuova democrazia.
Dunque, come si chiedeva Lenin: che fare? Potremmo anche accettare il fatto che non esistono forze militari convenzionali in grado di sfidare con successo la macchina da guerra americana. Gli attentati terroristici non fanno altro che offrire al governo statunitense l’opportunità che sta ansiosamente aspettando per stringere ulteriormente la sua morsa. A pochi giorni da un attacco potete scommettere che verrebbe approvato un secondo Patriot Act. Opporsi all’aggressione militare statunitense dicendo che farà aumentare le possibilità di attentati terroristici è del tutto inutile. Chi abbia letto i documenti sulla necessità di una guerra all’Iraq scritti nel 1998 dal gruppo ultraconservatore del Progetto per il nuovo secolo americano può confermarlo. Il fatto che Washington abbia messo a tacere il rapporto della commissione del congresso sull’11settembre, secondo cui erano state ignorate le segnalazioni dei servizi segreti su possibili attentati, conferma anche che, malgrado tutto, i terroristi e il regime di Bush potrebbero benissimo lavorare insieme. Entrambi ritengono che i popoli siano responsabili per le azioni dei loro governi. Entrambi credono nella dottrina della colpa collettiva e del castigo collettivo. Con le loro azioni si aiutano a vicenda.
Il governo degli Stati Uniti ha già dimostrato in termini inequivocabili la portata e la misura della sua capacità di aggressione paranoica. Nella psicologia umana, l’aggressione paranoica di solito è un indice di insicurezza nervosa. Si potrebbe sostenere lo stesso anche per la psicologia delle nazioni. L’Impero è paranoico perché ha un ventre molle.
Il suo territorio può essere difeso da pattuglie di frontiera e armi nucleari, ma la sua economia è ramificata in tutto il globo; e suoi avamposti economici sono esposti e vulnerabili.
La nostra strategia deve essere quella di isolare le parti funzionanti dell’impero e disattivarle una a una.
Un’altra sfida urgente è quella di denunciare i mezzi di informazione delle grandi multinazionali che sono realmente il bollettino padronale. Dobbiamo creare un universo di informazione alternativa.
La battaglia per riprendersi la democrazia sarà difficile. Le nostre libertà non ci sono state concesse da nessun governo. Gliele abbiamo strappate noi. E quando ci rinunciamo, la battaglia per riconquistarle si chiama rivoluzione. È una battaglia che deve investire continenti e paesi. Non deve avere confini nazionali ma, se vuole avere successo, deve cominciare qui, in America. L’unica istituzione più potente del governo statunitense è la società civile americana. Se vi unirete alla battaglia, non a centinaia di migliaia ma a milioni, sarete accolti con gioia dal resto del mondo. E vedrete quanto è bello essere gentili invece che brutali, sicuri invece che spaventati. Trattati con amicizia invece che isolati. Amati invece che odiati.
Detesto essere in disaccordo con il vostro presidente. Il vostro è sicuramente un grande paese. Ma voi potreste essere un grande popolo. La storia vi sta offrendo un’occasione. Coglietela.
Traduzione di Gigi Cavallo
Internazionale, numero 491, 05 giugno 2003
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