“No Martini? No party!”. Allora non scherzavano. Il 9 gennaio Bormio ha annullato la gara di slalom gigante del campionato del mondo. Mancavano gli atleti? La neve? I giudici di gara? Il pubblico? No. Mancava la televisione commerciale, per uno sciopero.

Migliaia di spettatori veri ai bordi della pista hanno aspettato inutilmente la gara e se ne sono andati inferociti. Spettatori veri trasformati in comparse non pagate, subordinati agli spettatori virtuali della tv commerciale, quelli che guardano lo slalom nel caldo dei tinelli, tra lo spot di un telefonino e quello di un formaggino. E gli atleti? Avrebbero dovuto prendere a calci gli organizzatori finché non li facessero partire. Invece no. Erano atleti e ora sembrano delle veline.

È il mondo alla rovescia. Prima le gare si facevano per far vincere il migliore, cosa per la quale non serve nessuna televisione. Ora le gare si fanno per vendere pannolini, dentifrici e carta igienica con gli spot della pubblicità. A me piacerebbe che lo sport restasse da una parte e la spesa dall’altra. Non c’è nessun bisogno di mescolarli. E come si finanzia lo sport? Sgombriamo il campo da questo argomento. È simile a quell’altro: come si finanziano i giornali, le radio e le televisioni senza pubblicità?

Senza lo sponsor

È come fissarsi – come fanno negli Stati Uniti – sulla domanda: come rendere più umana l’uccisione dei condannati a morte? Con due o con tre iniezioni? Queste sono domande che si pone solo chi considera l’uccisione di stato una cosa inevitabile. Molti considerano ormai anche la sottomissione dei mezzi d’informazione e dello sport alla legge del supermercato come una cosa inevitabile: c’è sempre stata e sempre ci sarà. Non è vero.

Per più di un secolo tutti gli sport si sono finanziati senza marche di formaggini, sigarette e cioccolati. Gli sport li pagavano in due: chi li faceva e chi li guardava. Perché non fossero un lusso per pochi, li pagava un po’ anche lo stato. Era un sistema semplice e pulito. Non portava nessuno a montarsi la testa, a corrompere arbitri, funzionari e mezzi d’informazione o ad avvelenarsi per vincere gare e miliardi imbrogliando.

Quel sistema ha funzionato per più di un secolo e potrebbe funzionare benissimo anche oggi. Ma aveva un difetto fatale: non aiutava a svuotare gli scaffali dei supermercati. Tutti i portatori di questo difetto oggi sono a rischio, come chi ha il diabete o la talassemia. Anch’io ho questa tara genetica. Infatti: quante volte mi vedete alla televisione commerciale? Quante sono oggi le cose che hanno una chance di sopravvivere, senza lo sponsor, il logo, il trailer, il promo? Pochissime. La messa, forse. Ma ho già visto chiese impacchettate con enormi reclame di acqua minerale (a Berlino) o di blue jeans (a Milano). Che male fa un pochino di pubblicità? Chiedono molti.

Ma è come chiedere: che male fa un pochino di pena di morte? Certe cose le fai o non le fai. Se rubi tanto o un pochino, sei egualmente un ladro. Lo so, è un concetto difficile da capire in Italia. Chiunque, a prescindere da quanto ruba, ha i suoi buoni motivi e le sue attenuanti. Il presidente del consiglio disse al parlamento europeo: ho fatto trecento leggi, ma per me stesso ne ho fatte solo tre. Probabilmente anche lui invoca lo stato di necessità. In fondo, l’affamato che ruba il pane non è proprio un ladro.

Si sono presi tutto

Qualcuno dice addirittura che la pubblicità rende gli sport e i mezzi d’informazione più liberi, gli permette di essere più ricchi e migliori. Basta guardare i nostri mass media: vi sembrano migliori oggi, che comanda la pubblicità, o trent’anni fa, quando un po’ di pubblicità c’era, ma non comandava? Perché il problema è qui: dov’è il punto oltre il quale è il supermercato che comanda, ribaltando completamente la gerarchia tra mezzi e fini? Quando un giornale non è più libero? Con il tre, il trenta o il sessanta per cento di pubblicità? Con il cinquanta per cento di pubblicità alcuni giornali riescono a essere meno condizionati di altri, che magari ne hanno meno.

Con qualunque quota di pubblicità nello sport e nei mezzi d’informazione si pratica però una malversazione: una cosa che è concepita per uno scopo viene usata per un altro. Quando il nuovo scopo resta subordinato a quello principale, molti finiscono per accettarlo o tollerarlo. Quando però il nuovo scopo passa davanti al vecchio, le cose cambiano.

L’annullamento del gigante di Bormio (niente televisione commerciale? Niente gara!) è importante per questo. La legge del nano – pubblicità e commercio sono il fine, tutto il resto è un mezzo – ci mette sotto gli occhi la “grande trasformazione”: ora è la coda che agita il cane, i mezzi che sostituiscono i fini, la società che diventa serva dell’economia. Forse è solo quando si prendono anche lo sport che ci accorgiamo che si sono già presi altre cose più importanti di uno slalom: la televisione, il governo, buona parte dello stato.

Questo testo è tratto dallo spettacolo beppegrillo.it

Internazionale, numero 578, 18 febbraio 2005

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