Il mese prossimo si svolgerà il secondo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia. A sfidarsi, come previsto, saranno Béji Caïd Essebsi, 87 anni, candidato su cui convergono i voti di tutti gli elettori ostili agli islamisti, e il presidente uscente Moncef Marzouki, un laico che ha scelto di allearsi con gli islamisti per evitare una spaccatura del paese su base religiosa. Essebsi, favorito per la vittoria finale, ha ottenuto il 39 per cento delle preferenze, mentre Marzouki si è fermato al 33 per cento.

Le presidenziali tunisine ci insegnano tre lezioni fondamentali. La prima è che non esiste alcuna opposizione tra l’islam e la democrazia. La Tunisia non è l’eccezione del mondo arabo, ma la sua avanguardia, la culla delle rivoluzioni arabe del 2011 e il paese più preparato ad abbracciare la democrazia, grazie ai compromessi su cui si è basata la sua indipendenza.

La seconda lezione di questo scrutinio è che, contrariamente a quanto si possa pensare, una vittoria elettorale degli islamisti non comporterebbe la nascita di una teocrazia senza ritorno. Gli islamisti tunisini hanno già vinto le elezioni nel 2011, ma la costante mobilitazione della società civile e delle donne gli ha impedito di mettere la religione alla guida del paese. In seguito la loro incapacità politica gli ha fatto perdere il sostegno iniziale, tanto che hanno dovuto rinunciare al potere prima di perdere le legislative evitando di presentare alle presidenziali un candidato proveniente dai loro ranghi.

La terza conclusione di questo scrutinio è che ormai l’aggettivo “islamista” definisce forze talmente diverse tra loro da aver perduto qualsiasi significato. Ennahda, la formazione degli islamisti tunisini, è soltanto un partito religioso, tradizionalista e liberale in economia, un partito fondamentalmente reazionario ma deciso ad affermare le proprie idee democraticamente. In Egitto i Fratelli musulmani avrebbero sicuramente seguito lo stesso percorso (anche se meno netto e meno rapido) se un colpo di stato militare non li avesse spinti nuovamente verso il radicalismo. In Turchia gli islamisti, al potere da dodici anni, hanno saputo modernizzare il paese come mai prima, e la deriva autoritaria di Recep Tayyip Erdoğan non è legata tanto alla religione quanto alla sua personale megalomania.

L’islamismo non è incompatibile con la democrazia. Bisogna distinguerlo bene dal jihadismo violento e sanguinario, e persino i barbari dello Stato islamico sono meno interessati a scatenare una guerra santa di quanto non lo siano a rimodellare le frontiere mediorientali a favore del sunnismo, il ramo dell’islam a cui appartengono. In un mondo musulmano in grande fermento, l’accelerazione della storia ridefinisce anche gli islamisti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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