A volte si può non aver detto qualcosa pur avendone parlato. Questo vale soprattutto per i diplomatici, e domenica, contrariamente alle notizie che sono circolate frettolosamente, il segretario di stato americano non ha affatto dichiarato che gli Stati Uniti sono rassegnati all’idea che Bashar al Assad resterà al suo posto.
John Kerry ha detto semplicemente che “alla fine” bisognerà negoziare una transizione politica in Siria con “il regime Assad”. Tra l’altro non è nemmeno una novità, perché le grandi potenze hanno già provato per due volte a negoziare una transizione politica con il regime e perché una transizione politica (ovvero il contrario di un rovesciamento di un regime) si negozia inevitabilmente con tutte le parti in causa, compreso il regime e dunque il suo capo.
In sostanza, Kerry non ha deviato da questa linea, ma allo stesso tempo ha accuratamente evitato di ripetere che Assad ha perso ogni legittimità e deve andarsene. Questo silenzio su uno degli aspetti principali della linea europeo-americana segna un ammorbidimento verbale degli Stati Uniti la cui motivazione non è strettamente legata al problema siriano.
Per trovare le ragioni della scelta di Kerry bisogna infatti guardare all’Iran. Il segretario di stato americano ha lasciato intendere ciò che non ha detto proprio alla vigilia dell’apertura dell’ultimo giro degli interminabili negoziati sul nucleare con il ministro degli esteri iraniano, in programma lunedì a Losanna. La trattativa dovrebbe concludersi (con un successo o un fallimento) entro la fine del mese, e negli ultimi tempi ha prodotto ottimi risultati. Il compromesso sembra alle porte, ma oltre alla difficoltà di definire i dettagli bisogna tenere presente che il negoziato non si basa solo sulla rinuncia di Teheran a costruire la bomba atomica in cambio della cancellazione delle sanzioni economiche.
In ballo c’è anche il contesto mediorientale, perché gli iraniani non vogliono che una volta trovato l’accordo Washington si opponga alla loro avanzata in Iraq e Siria e perché gli statunitensi sperano che un compromesso sul nucleare possa permettergli di delegare all’Iran una parte dello sforzo militare necessario a sconfiggere i jihadisti dello Stato islamico.
In sostanza esiste un negoziato nel negoziato, due trattative che procedono a braccetto. La situazione è complicata ulteriormente dalle pretese dei conservatori di Teheran, dalla maggioranza repubblicana al congresso statunitense (che non vuole il compromesso) e dal fatto che Arabia Saudita e Israele, alleati degli americani, non si fidano della svolta di Washington in favore dell’Iran.
La voluta ambiguità delle dichiarazioni di Kerry nasconde la volontà di aiutare i leader iraniani a convincere i conservatori che la partenza di Assad non è una priorità per Washington e allo stesso tempo garantire all’Arabia Saudita e a tutto il fronte sunnita che il cambio di regime è ancora all’ordine del giorno e ci sarà una transizione a Damasco. A volte i progressi non si ottengono solo con la chiarezza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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