Anche se sono diversi, gli interessi di Cuba e Stati Uniti convergono. Per i leader cubani la normalizzazione dei rapporti con Washington aprirebbe la strada a una cancellazione dell’embargo che colpisce il loro paese da mezzo secolo. Per i cubani sarebbe una buona notizia, ma anche gli statunitensi ne trarrebbero beneficio.

L’embargo è stato un fallimento, anche perché non ha mai provocato la caduta del regime castrista. Venticinque anni dopo la fine della guerra fredda, i tempi sembrano maturi per una svolta tanto più giustificata se consideriamo che questa isola abitata da undici milioni di persone non rappresenta più alcuna minaccia per gli Stati Uniti, e che aprendo a Cuba Washington soddisferebbe tutta l’America Latina, voltando simbolicamente pagina rispetto all’era in cui il gendarme americano e le sue multinazionali facevano il bello e cattivo tempo (spesso più cattivo che bello) in tutto il subcontinente.

Questa evoluzione segna la fine dell’ultimo retaggio della guerra fredda, ma quale sarà il futuro di Cuba?

Tutto lascia pensare che l’isola intraprenderà un percorso lontano dal comunismo e che la transizione verso l’economia di mercato creerà le stesse disuguaglianze che osserviamo in Europa centrale, sprofondando nella miseria i più poveri. Questa violenza sociale potrebbe essere particolarmente dura perché Cuba non può contare su un vicino come l’Unione europea (con la sua economia sociale di mercato), ma deve rapportarsi con gli Stati Uniti e la loro legge del più forte.

Questo scenario sembra già scritto, ma ci sono tre motivi per pensare che il futuro dell’isola non sia così scontato. Il primo motivo è che la stragrande maggioranza dei cubani prova un sentimento di profonda sfiducia nei confronti degli Stati Uniti. Che siano sostenitori o avversari del regime, i cubani non vogliono tornare a essere un protettorato americano, e questo nazionalismo spinge il governo e la popolazione a compattarsi per non aprire le porte agli Stati Uniti. Il secondo motivo è che i contenziosi da risolvere sono ancora molti, e né la cancellazione dell’embargo né il ripristino delle relazioni diplomatiche con Washington saranno fatti dall’oggi al domani. Il terzo motivo, infine, è che i vertici di Cuba sono intenzionati (e lo dimostra il modo in cui riceveranno lunedì il presidente francese) a non impegnarsi in un rapporto troppo esclusivo con gli Stati Uniti.

Non solo L’Avana diversificherà l’investimento estero, ma proverà a limitare il suo impatto sociopolitico incanalandolo verso accordi di associazione con le aziende di stato e soprattutto con quelle controllate dall’esercito. Più pragmatico del partito, l’esercito cubano è già una potenza economica avvezza agli investimenti comuni con le imprese estere. Il suo ruolo economico e politico dovrebbe essere sempre più prevalente tanto più che è stato il suo capo storico, l’attuale presidente Raúl Castro, ad avviare i cambiamenti in corso. Il regime, insomma, non intende farsi travolgere dall’apertura. Il problema è che a Cuba tutto è talmente anacronistico, spossante e grottesco che gli effetti di una boccata d’aria sono sostanzialmente imprevedibili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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