In questo mix tra capitalismo selvaggio e dittatura politica qualcuno aveva addirittura visto un modello da seguire. Per trent’anni le aziende occidentali sono state attirate dai salari bassi e dalle promesse dell’enorme mercato interno cinese, e la Cina era considerata un eterno Eldorado il cui destino era quello di affermarsi come iperpotenza del ventunesimo secolo. Ma tutti i sogni prima o poi finiscono.

La svalutazione estiva e il tracollo della borsa di Shanghai di fine primavera dimostrano che la Cina sta ormai diventando un fattore di instabilità internazionale, potenzialmente il più grande di tutti. I capitali interni fuggono, mentre quelli stranieri fanno rotta verso altri lidi. Gli investitori ora hanno paura del paese più popoloso al mondo, perché la crescita non è più a due cifre e non è più nemmeno al 7 per cento come sostengono le statistiche ufficiali.

Fare ipotesi è avventato, ma le più affidabili parlano di una crescita cinese inferiore al 4 per cento, livello che rischia di far impennare la disoccupazione in un paese in cui la protezione sociale non esiste. Senza alcuna indennità né sussidi, i disoccupati cinesi non possono più sfamarsi né tantomeno inviare soldi nelle campagne, dove centinaia di milioni di uomini e donne hanno lasciato le famiglie per andare a lavorare nelle fabbriche alla periferia delle grandi città.

La Cina è in cattive acque perché non può sperare in una crescita eterna

La Cina non è equipaggiata per affrontare un calo dell’occupazione, che a questo punto potrebbe mettere in discussione il tacito accordo tra la popolazione e i suoi governanti. I cinesi amano la libertà tanto quanto gli altri popoli, ma in attesa di giorni migliori (fatta eccezione per alcuni eroici dissidenti) vi avevano rinunciato in cambio del miglioramento del loro tenore di vita.

“Voi ci arricchite e noi vi lasciamo governare”, dicevano. Ma se il tenore di vita dei poveri e delle nuove classi medie cala e se il governo perde la sua unica legittimità in un momento in cui è dilaniato dalle lotte interne, allora è evidente che la Cina è destinata a un periodo tormentato.

La situazione è ancora sotto controllo, perché Pechino dispone di enormi riserve di valuta e le sta già utilizzando per rilanciare l’economia. La vera catastrofe non è imminente, ma la Cina è in cattive acque perché non può sperare in una crescita eterna, perché i suoi salari sono meno attraenti di quelli di altri paesi asiatici e africani e perché nel paese non esistono meccanismi di protezione sociali e politici.

La Cina, insomma, è destinata a soffrire. A farne le spese sarà l’economia mondiale, a cominciare dalla Germania e dagli Stati Uniti. L’aspetto più inquietante è che presto l’unica via d’uscita per il governo cinese potrebbe essere un ulteriore passo verso il nazionalismo e l’aggressività regionale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it