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Cosa succede se cresce l’occupazione ma spariscono i diritti

Una protesta a Marsiglia, in Francia, contro la riforma del lavoro proposta dal governo di Manuel Valls, il 9 marzo 2016. (Anne-Christine Poujoulat, Afp)

I termini del dibattito sono ormai noti, e la Francia è l’ultimo paese ad affrontarlo in Europa. Prima dei francesi, gli scandinavi, i britannici, i tedeschi, poi gli spagnoli e gli italiani negli ultimi anni si sono chiesti se fosse necessario liberalizzare il mondo del lavoro per arginare la disoccupazione.

Alla fine tutti hanno deciso di seguire questa strada, e il tasso di disoccupazione è effettivamente calato. Si tratta chiaramente di un buon risultato, ma esiste anche un rovescio della medaglia: la protezione dell’impiego è stata ridotta ed è aumentato il numero di “lavoratori poveri”, ovvero di persone occupate ma con un salario molto basso.

Il male minore

Dunque è inevitabile livellare verso il basso per permettere a tutti di avere un lavoro e vivere del proprio salario anziché di sussidi?

La risposta è tanto più difficile se consideriamo che possiamo ragionare solo a breve termine, perché la flessibilità, pur causando un calo della disoccupazione e un aumento della crescita, comporta un’incertezza sociale che la Germania sa affrontare e il Regno Unito no.

Ridurre questo dibattito a uno scontro tra sfruttatori del popolo e difensori di vantaggi acquisiti in un’altra epoca non serve a niente. Ma perché l’Europa si è ritrovata, molto dopo gli Stati Uniti, a dover scegliere il male minore?

Per capirlo bisogna tornare al crollo dell’Unione Sovietica, ovvero a quando nei paesi industrializzati si è capovolto il rapporto di forze tra il capitale e il lavoro, tra le imprese e i dipendenti.

Dopo la fine del comunismo il capitale ha potuto cercare ai quattro angoli del pianeta gli investimenti più redditizi

Questo rapporto di forze era stato chiaramente favorevole al lavoro fino alla metà degli anni settanta, cioè fino alla fine del periodo di ricostruzione del dopoguerra che aveva garantito il pieno impiego e permesso ai dipendenti di ottenere sempre più vantaggi sociali e salariali.

Basta ricordare il boom del trentennio tra il 1945 e il 1975, un periodo che in realtà si è prolungato fino al crollo sovietico. La fine dell’Urss ha cancellato il secondo punto di forza su cui aveva potuto puntare il lavoro nel dopoguerra, quella paura del comunismo che spingeva verso un’equa ripartizione dei benefici tra azionisti e dipendenti.

Dal giorno in cui non c’è stato più il comunismo e la Cina (insieme a tutti i paesi dall’economia pianificata) si è convertita al mercato, il capitale ha avuto la possibilità di cercare ai quattro angoli del pianeta gli investimenti più redditizi. Di conseguenza le imprese sono state costrette ad accrescere il loro margine di profitto a danno del lavoro per attirare i capitali di cui avevano bisogno.

Oggi il rapporto di forze è totalmente capovolto. Per quanto sia sgradevole, questa realtà è impossibile da ignorare. Ma non sarà eterna, perché nei paesi in via di sviluppo aumenteranno i salariati e perché, comunque sia, il capitale non ha bisogno solo di forza lavoro, ma anche di consumatori e di coesione sociale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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