Ci sono molti modi di essere ebrei, tanti quanti sono gli ebrei. Esattamente come accade con i cristiani e i musulmani, ci sono tanti tipi di ebrei, di sinistra e di destra, di qualsiasi nazionalità o quasi, credenti o non credenti, radicali o moderati. Simone Veil, a cui la repubblica francese rende omaggio oggi, incarnava con tutta se stessa gli ebrei europei della sua generazione e i figli di questa generazione che erano usciti dall’ombra del genocidio con la convinzione che l’importante fosse impedire che quella barbarie si ripetesse.
La sinistra, la destra, il liberismo o la socialdemocrazia. Tutte cose importanti, certo, ma non sono niente per i sopravvissuti di Auschwitz e i loro figli davanti a una domanda inevitabile: l’orrore potrebbe ripetersi? E come evitarlo?
Questa domanda se la fanno ancora i figli e i nipoti dei genocidi in Armenia e Ruanda, e lo stesso interrogativo perseguita gli ebrei europei, riempie le loro notti e determina le loro vite con una forza tale da modellarli a prescindere dal loro schieramento politico e dalla loro fede (o assenza di fede). Essere un ebreo europeo significa essere un sopravvissuto che ogni giorno guarda suo figlio o sua figlia, suo nipote o sua nipote, domandandosi se in futuro potrebbero mai essere denunciati, arrestati e uccisi in una camera a gas.
Scegliere un destino comune
Se non comprendiamo questa realtà allora non possiamo capire niente di Simone Veil. Dobbiamo chiederci perché questa donna eccezionale è stata centrista, femminista, tanto decisa a riconciliare la Francia e la Germania, e un’ardente sostenitrice dell’unità europea.
Lo è stata perché voleva che l’equilibrio tra la sinistra e la destra emarginasse l’estrema destra, perché aveva sofferto troppo l’ingiustizia per accettare il trattamento riservato alle donne, perché non voleva più che la Francia e la Germania uscissero dalle loro guerre perenni talmente indebolite e umiliate da permettere ai partiti dell’odio di promettere vendette sanguinarie, perché voleva che i tedeschi, i francesi e tutti gli europei scegliessero un destino comune per non ritrovarsi mai più a combattersi. Simone Veil non voleva più Verdun né Pétain, né Oradour, né Auschwitz.
Conoscevo Simone Veil come mia madre. Con lei avevo una complicità così profonda che un giorno, mentre partecipavamo a una tavola rotonda sul conflitto israelo-palestinese, l’avevo presa per le spalle, senza dirle niente, per darle due baci. Lei mi aveva risposto con uno sguardo talmente severo che avevo creduto di morire di vergogna.
Simone Veil non amava le smancerie, ma in fondo non si è arrabbiata davvero, tanto che qualche mese dopo mi ha chiesto se doveva entrare nel governo Balladur. “Cosa ne pensi?”, mi ha chiesto come si fa con un fratello minore, in quel caso parecchio imbarazzato. Un fratello minore che l’amava tanto perché era come sua madre, le stesse paure e lo stesso coraggio.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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