La distanza tra Francoforte e Rio è scomparsa. Non ci sono più differenze tra il Brasile, dove il 28 ottobre un militante raffinato come una lama di coltello è diventato presidente, e il land di Assia dove i socialdemocratici e i cristianodemocratici hanno perso, sempre nella giornata di domenica, dieci punti percentuale ciascuno. La crisi è sempre la stessa ed è la crisi della democrazia.

Ovunque, nel mondo, la democrazia è in crisi perché non sa più rispondere alle sfide del nostro tempo. Oggi tutto va più veloce: l’altro ieri gli smartphone, domani l’intelligenza artificiale. La democrazia invece richiede tempo, il tempo delle elezioni, del dibattito e dei contro-poteri. Lo sfasamento tra la democrazia e l’era contemporanea è sempre più profondo perché, dal cambiamento climatico all’evoluzione dei costumi passando per la precarizzazione del lavoro e le ondate migratorie, i popoli dei cinque continenti sono alle prese con cambiamenti radicali a cui chiedono risposte immediate che le istituzioni e i leader politici non possono fornire, comunque non in tempi brevi.

Si chiama crisi di rappresentanza, ed è diventata palese da quando ha cominciato ad alimentare l’aspirazione verso l’uomo forte. Ce ne siamo accorti nel 2016 con l’elezione di Rodrigo Duterte nelle Filippine e quella di Donald Trump negli Stati Uniti. Oggi le conferme continuano ad arrivare, da Budapest e Roma. La tendenza è tanto più evidente se consideriamo che l’alternanza tra destra e sinistra non può più garantire il progresso sociale e il consenso democratico del dopo guerra, con gli stati nazione indeboliti dalla globalizzazione dell’economia.

Siamo davanti a un rifiuto di tutto ciò che ha caratterizzato il mondo dopo il 1945, democrazia compresa

Da quando gli imprenditori possono spostare la produzione dove i costi sono inferiori, le leggi e i regolamenti nazionali hanno un peso relativo e questo ha ridotto drasticamente la credibilità politica dello stato. Per riprendere la frase che è costata la presidenza della repubblica francese a Lionel Jospin, “lo stato non è onnipotente” nel mondo di oggi, e se questa influenza continua a ridursi, cosa può spingere gli elettori a credere ancora all’alternanza democratica del passato?

Gli elettori sono sempre più sfiduciati e voltano le spalle ai partiti tradizionali (come in Germania e Italia) facendo appello a uomini e movimenti che sembrano nuovi perché si scagliano contro tutto ciò che è stato costruito nella seconda metà del ventesimo secolo.

Che si tratti di denunciare la crescita economica (come i Verdi che guadagnano terreno in Germania) o di mettere in dubbio il libero scambio, il multilateralismo, l’antirazzismo, l’evoluzione dei costumi, i diritti umani o la lotta contro il riscaldamento climatico (come fanno, in blocco o in parte, Donald Trump, le nuove estreme destre e ora anche Jair Bolsonaro) dal 2016 siamo comunque davanti a un rifiuto di tutto ciò che ha caratterizzato il mondo dopo il 1945, democrazia compresa.

Dobbiamo aprire gli occhi. La democrazia che trionfava nel 1989, meno di trent’anni fa, oggi è in pericolo a causa della paura diffusa che spinge gli elettori e i paesi a puntare più sulla forza che sulla trattativa, più sull’affermazione identitaria che sull’apertura e la tolleranza, più sui poteri considerati forti che sulla democrazia considerata debole. È questa la realtà che ha influenzato il voto tedesco e brasiliano di domenica, la stessa che fa barcollare Angela Merkel e isola Emmanuel Macron, mentre Vladimir Putin, Donald Trump, Xi Jinping, Narendra Modi, Matteo Salvini, Rodrigo Duterte e Jair Bolsonaro occupano il proscenio.

Oggi è in atto una battaglia globale tra le libertà che arretrano e la dittatura che avanza, persino all’interno delle democrazie. I prossimi scrutini – le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti e le parlamentari in Europa – saranno decisivi. Da domenica scorsa la mancata unione tra tutti i sostenitori della democrazia va considerata come un lusso che non possiamo permetterci.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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