Quando il successo di un documentario online diventa neologismo: è il caso di Snowfall, la storia multimediale e interattiva pubblicata dal New York Times a dicembre del 2012 grazie alla quale il giornalista John Branch nel 2013 ha vinto un premio Pulitzer.
Il successo del prodotto è stato tale che Snowfall è ormai un termine usato per indicare in generale un documentario web che usa elementi multimediali presentati in modo non lineare per coinvolgere il lettore. Così –spiega Bobbie Johnson su Medium – da qualche tempo ai giornalisti e agli editor capita di sentirsi chiedere: “avete già fatto uno snowfall”? Al New York Times la direttrice Jill Abramson ha persino creato da poco la posizione di snowfaller-in-chief per sviluppare un nuovo progetto di magazine digitale interattivo sullo stile di Snowfall, appunto.
Allora è questo il futuro del giornalismo? In realtà qualcuno
ha già risposto di no. Per la realizzazione di un documentario interattivo servono mesi di lavoro e la crisi dei giornali ci fa pensare che difficilmente una redazione che non sia quella di una grande testata come il New York Times abbia sufficienti risorse per impiegare i suoi giornalisti per tanto tempo su un unico progetto. Inoltre, secondo Johnson, anche se ci fossero le risorse necessarie, non è utile intraprendere questa strada, perché “gli elementi multimediali mettono in secondo piano la storia. Come lettore, penso “che bel design” e non “che storia incredibile!”
In Snowfall e in progetti simili, come il recente Firestorm pubblicato dal Guardian, la lettura viene interrotta dalla possibilità di cliccare su audio, video e portfoli fotografici e l’attenzione dell’utente si frammenta.
È la tentazione di privilegiare la tecnologia al posto della notizia. Ne aveva già parlato Pierre Haski, direttore di Rue89, a un workshop su internet e il giornalismo ospitato da Internazionale a Ferrara nel 2011, quando aveva messo in guarda i suoi studenti ricordando “che prima di tutto siamo giornalisti, non geek”. (dc)
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