La distruzione di Aleppo filmata dal balcone di casa
Houses without doors, del regista siriano armeno Avo Kaprealian, ha vinto il premio per il migliore documentario internazionale all’ultima edizione del Torino film festival. Il film mostra la banalità quotidiana del male attraverso l’orrore dell’assedio di Aleppo. Mentre il regista vive in diretta la morte e la distruzione della sua città, ricorda un’altra guerra, un altro genocidio accaduto cento anni fa.
Aleppo è la più grande città armena del Medio Oriente, ha rappresentato il luogo di rifugio dei sopravvissuti al genocidio in Turchia, che causò la morte di un milione e mezzo di armeni. Kaprealian lo ricorda attraverso immagini e suoni tratti dal film Mayrig di Henri Verneuil: un uomo distrutto interpella il pascià – “Signore, abbiamo i piedi insanguinati, siamo stremati”, e lui, in apparenza magnanimo, gli propone scarpe “che non si rovineranno mai”. Poi ordina di far mettere dei ferri da cavallo sui piedi insanguinati del rifugiato urlante.
In un’altra inquadratura del documentario, la madre di Avo Kaprealian riesce a malapena a chiudere la sua valigia, rimane a lungo in silenzio, poi chiede al figlio se deve piangere. Perché cento anni dopo, una famiglia armena del quartiere di Al Midan è di nuovo costretta a scappare con una valigia come unico bagaglio, anche se questa volta non in quanto armena: ad Aleppo, tutti i siriani devono prima o poi scappare o morire. “Gli armeni”, scrive il regista nella sua lettera di ringraziamento al festival di Torino, “dicono sempre ‘mai più’ quando parlano del genocidio, e invece l’abbiamo rivissuto, rivisto, risentito, ancora e ancora, in diversi modi, in Siria e in Iraq”.
Prima chiude la farmacia, poi tutti gli altri negozi, spariscono gli uomini che chiacchieravano sotto casa
Houses without doors non vuole essere un’opera artistica. È un documento grezzo, di bruciante attualità. Le riprese sono spesso sfocate, si muovono a scatti, il bambino a cui si annuncia che non andrà più a scuola è ripreso in controluce, quelli che giocano alla guerra tra “esercito siriano” e “opposizione” sono inquadrati in maniera fugace. La festa di capodanno con i bombardamenti in sottofondo mostra molte sigarette, visi a metà, mani, schiene tese.
Nelle scene di interno i personaggi filmati da Avo Kaprealian sono quasi tutti persone della sua famiglia e hanno sempre una parola per il suo girare ossessivo, intrusivo. Sua madre, con il caffè in mano e la lunga sigaretta nell’altra, offre spesso il suo profilo all’obiettivo, si è abituata all’occhio documentarista del figlio. Il padre, di cui non si vede mai il viso, è spaventato, come lo sono sempre stati tutti i siriani, anche prima della guerra: “Ci sono più servizi segreti che abitanti qua Avo, smettila di filmare, o saliranno e ci arresteranno tutti”.
La difficoltà di filmare in Siria non deve essere sottovalutata: quasi nessun giornalista straniero lo fa più e farlo è molto pericoloso anche per gli stessi siriani. Avo filma quasi tutto dal suo balcone. All’inizio dell’assedio riprende un matrimonio da lì e anche il funerale di una ragazza morta sotto i bombardamenti. La situazione è tesa, i suoi genitori, sempre dal balcone, cercano di scovare i cecchini appostati nel quartiere. Ma la vita continua malgrado le violenze, è la famosa resilienza degli essere umani, la loro capacità di far fronte anche agli eventi più traumatici.
A poco a poco, nel corso del film, in questa strada che diventa familiare anche allo spettatore, assistiamo allo svuotamento inesorabile della città e alla lenta scomparsa di tutti i segni di normalità. Prima chiude la farmacia, poi tutti gli altri negozi, spariscono gli uomini che chiacchieravano sotto casa, i giovani sfaccendati, e poi le madri che corrono con le figlie per paura delle pallottole vaganti, e infine arriva il turno degli alberi. Prima perdono i loro colori e poi muoiono, distrutti insieme ai diversi piani del palazzo di fronte. Alla fine – che fine non è, neanche per Aleppo la martire – sparisce la strada. Avo scende di notte per filmare la spessa crosta fatta di calcinacci e detriti provocati dalla guerra che ormai ricopre l’asfalto. Sembra che non ci sia fine alla distruzione di Aleppo.
Avo Kaprealian conclude così la sua lettera a Torino: “Voglio ricordare che noi umani siamo eterni rifugiati in questo bellissimo mondo, dall’oscurità della nostra creazione fino alla nostra morte, che è uguale per tutti”.