Alaa Abdel Fatah è uno dei più importanti attivisti egiziani per i diritti umani. Il suo percorso politico è strettamente legato alla generazione di rivoluzionari che hanno animato la rivoluzione di piazza Tahrir nel 2011. Dal 2006, data del suo primo arresto sotto la presidenza di Hosni Mubarak per la sua partecipazione a una manifestazione pacifica, è entrato e uscito dal carcere molte volte. Nel 2013 è stato condannato a cinque anni di carcere per aver organizzato una manifestazione davanti al parlamento egiziano. Prima della rivoluzione, con il suo aggregatore di blog Manalaa aveva contribuito a creare una rete d’informazione araba libera nel mondo di internet. Il suo ruolo nella rivoluzione è stato cruciale, come attivista e stratega di un Egitto democratico. Alaa è stato arrestato di nuovo senza nessuna base legale, ha sottolineato Amnesty International, nel settembre del 2019. Descrivere il suo percorso è raccontare il destino di altri sessantamila prigionieri politici in attesa di processo in Egitto.

Il 12 aprile Alaa ha cominciato uno sciopero della fame e 36 giorni dopo una foto è comparsa su tutti i social network in Egitto: una brillante matematica, professoressa all’Università del Cairo, sdraiata per terra fuori della prigione di Tora.

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È Leila Soueif, madre di Alaa, che dall’inizio dello sciopero della fame di suo figlio ha denunciato i rischi legati al sovraffollamento delle carceri con la pandemia del coronavirus. Insieme a sua figlia, Mona Soueif, chiedevano di poter consegnare ad Alaa una lettera e alcune medicine, richiesta sempre respinta.

Il 19 maggio Alaa ha deciso di interrompere lo sciopero, anche per proteggere la sua famiglia. Due giorni prima di questa decisione, Lina Attalah, direttrice del sito Madamasr, l’unico mezzo di informazione libero rimasto nel paese, era andata a intervistare Leila Soueif. È stata arrestata anche lei davanti alla prigione. In poco tempo la notizia ha fatto il giro del mondo e la giornalista è stata rilasciata nella notte dietro il pagamento di una cauzione.

Da anni il suo sito è preso di mira dal regime, tanto che dall’Egitto risulta inaccessibile, come succede a oltre 500 siti. Nel novembre del 2019, un giornalista di Madamasr, Shady Zalat, era stato arrestato a casa sua e poco dopo le forze di sicurezza avevano fatto irruzione nella redazione. La stampa internazionale aveva protestato e Zalat era stato liberato. Più recentemente un’altra giornalista di Madamasr, Basma Mustafa, è stata prelevata da funzionari in borghese, minacciata e poi rilasciata mentre seguiva una protesta davanti al ministero della salute.

Se la stampa internazionale si mobilita per Madamasr è perché, nell’assenza totale di informazione libera in Egitto – paese che per ironia della sorte nella storia ha pubblicato i migliori giornali del mondo arabo – è rimasto l’unica fonte di informazione indipendente. Anche i corrispondenti stranieri vengono attaccati dal regime: recentemente la corrispondente del Guardian è stata espulsa dal paese per la sua copertura del coronavirus in Egitto.

Nessuno è al sicuro
Con lo stop del turismo, del reddito proveniente dal traffico commerciale sul canale di Suez e delle rimesse inviate dall’estero – le tre principali entrate economiche del paese – oggi un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà e i duecentomila migranti subsahariani che vivono in Egitto stanno “con la fame dentro casa e il coronavirus fuori”, scriveva Madamasr la scorsa settimana. Il paese è, inoltre, il più colpito di tutta l’Africa per quanto riguarda la pandemia.

Il Fondo monetario internazionale ha così accordato all’inizio di maggio un altro prestito di 2,7 miliardi di dollari per impedire il collasso economico del paese. Secondo Yehia Hamed, ex ministro degli investimenti egiziano sotto la presidenza di Mohamed Morsi, tale prestito non soltanto “aggraverà l’austerità e infliggerà gravi danni ai poveri del paese”, ma sta anche dando “più ossigeno a un regime fatiscente”. Il brillante economista egiziano Amr Adly ha appena pubblicato un’importante critica di tali iniziative dell’Fmi nel suo libro Cleft capitalism (Capitalismo di frattura).

E così, contrariamente a molti paesi che hanno deciso il rilascio di prigionieri per evitare gravi focolai in carcere, l’Egitto chiude ancora ulteriormente le sue prigioni. Patrick Zaki è una delle vittime di questa situazione: ha festeggiato il doloroso anniversario di 100 giorni di prigione, con processi rinviati all’infinito e il divieto di visita della sua famiglia o di ricevere alcun trattamento speciale, malgrado soffra di asma.

Le ondate di arresti del presidente Al Sisi sono una fuga in avanti: nessuno è più protetto, dagli attivisti ai difensori dei diritti umani agli influencer di TikTok o Instagram. Una delle più conosciute influencer di TikTok (tre milioni di followers) in Egitto, Mawada Eladhm, è stata arrestata, riporta Al Masry Al Youm, per avere “violato i princìpi e i valori familiari della società egiziana”. La ragazza di 22 anni canta in playback canzoni egiziane, va dal nutrizionista e la sua valenza politica è pari quasi a zero.

Per ora le reazioni della stampa internazionale hanno, in parte, protetto i giornalisti di Madamasr. Fino a quando i principali interlocutori del regime egiziano, l’Unione europea e in particolar modo l’Italia – che avrebbe molto da dire all’Egitto, dall’omertà sul caso di Giulio Regeni all’incarcerazione senza processo dello studente di Bologna Patrick Zaki – possono restare in silenzio? Quanti di questi ragazzi, sempre più giovani e meno politicizzati, devono morire in prigione prima che si alzi una voce?

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