La decapitazione del professore di storia e geografia Samuel Paty, all’uscita di scuola nel cuore di una tranquilla città della regione parigina, Conflans Saint-Honorine, rappresenta uno spartiacque nella lunga lista degli attentati jihadisti compiuti in Francia nell’ultimo decennio.
Mentre il paese sta provando, proprio questo mese, a fare chiarezza sugli attentati jihadisti che causarono i massacri del 2015 e del 2016, con il processo agli assassini dei giornalisti e dei vignettisti di Charlie Hebdo, dei clienti del supermercato kasher e degli spettatori della sala concerti del Bataclan, l’identità dell’attentatore di Conflans pone molte domande: il ceceno Abdouallakh Anzorov, che ha decapitato con un coltello da cucina il professore Paty, aveva solo 18 anni. Nato a Mosca, era arrivato in Francia nel 2008, all’età di sei anni, e aveva usufruito dello status di rifugiato. Non era noto alle forze dell’ordine.
Dopo gli attacchi a Charlie Hebdo e al Bataclan, l’intero paese si è convinto che i terroristi volevano colpire al cuore il modo di vivere della Francia – dall’umorismo dissacrante di Charlie Hebdo, alla musica e alla vita notturna. L’attacco del 16 ottobre colpisce stavolta l’istituzione repubblicana per eccellenza: la scuola. Il suo impatto sull’opinione pubblica francese è immenso, la reazione dell’esecutivo senza precedenti.
La scuola pubblica abbandonata
Il professore, 47 anni, era particolarmente apprezzato dagli studenti, sapeva insegnare in modo appassionante e faceva parte di quei docenti che ancora credono nella loro missione. Ma, come molti professori della scuola pubblica francese hanno spiegato in questi giorni, la missione educativa è sempre più difficile da portare avanti. E il sentimento di abbandono sta crescendo: “Gli insegnanti sono esausti – scrive un collega di Paty – demoralizzati. Questa violenza assoluta arriva dopo migliaia di casi di aggressioni a docenti che non sono stati sostenuti e difesi, creando un clima che li mette in pericolo. È il culmine di un processo che istituzioni e società non hanno voluto affrontare”.
Se lo stato di shock è palpabile nel mondo della scuola, c’è anche tanta rabbia. In un vibrante omaggio a Paty, un’altra sua collega rifiuta la definizione di “martire” che alcuni vorrebbero attribuire alla sua figura: “Gli insegnanti non sono soldati, non stanno combattendo contro nessuno. Al contrario, creano beni comuni. Permettono il dialogo, consentono disaccordi”.
Un altro elemento sconvolgente di questo omicidio è che il giovane ceceno non frequentava la scuola dove insegnava Samuel Paty, ma è venuto a sapere che il professore aveva mostrato alcune vignette del profeta Maometto nudo, durante una lezione di educazione civica, attraverso i social network. L’evento è stato raccontato, deformato, da un’allieva tredicenne a suo padre, Brahim Chnina. L’uomo ha in seguito postato tre video, accompagnato nell’ultimo dall’“autoproclamato” sceicco Abdelhakim Sefrioui, ben noto alla polizia, in cui si inveiva contro il professore definendolo un “delinquente”. È attraverso questo tam tam sui social network che Anzorov è venuto a conoscenza dell’esistenza di Paty. Per Gabriel Attal, portavoce del governo: “Chi ha partecipato al linciaggio pubblico di questo insegnante sui social è responsabile in qualche modo di quello che è successo”.
Altro fatto comune a molti dei recenti attacchi terroristici – islamisti o di estrema destra, come il massacro di Christchurch, in Nuova Zelanda – è il bisogno di condividere l’iconografia dell’orrore sui social network: il giovane ceceno ha subito postato l’immagine della testa di Paty, prima di essere trovato dalla polizia e ucciso. La ministra delegata alla cittadinanza, Marlène Schiappa, ha convocato il 20 ottobre i dirigenti degli uffici francesi di Facebook, Twitter, Google (per Youtube), TikTok e Snapchat per affrontare la questione del ciberterrorismo.
L’offensiva del governo
Le reazioni della stampa francese – da destra a sinistra – hanno toni comprensibilmente preoccupati ma qualche volta anche bellicosi: mentre il paese è in una situazione sanitaria preoccupante a causa dell’epidemia di covid-19, c’è chi chiede una guerra senza quartiere contro il jihadismo.
Il ministro dell’interno Gérald Darmanin, ha annunciato sul canale radiofonico Europe 1 operazioni a tappeto contro “decine di individui” che non hanno “necessariamente un legame con le indagini, ma ai quali si vuole chiaramente mandare un messaggio” e ha detto che il governo vuole portare avanti una vasta offensiva contro l’islam radicale nel paese.
Il Ccif, Collettivo contro l’islamofobia in Francia, rischia di essere chiuso nei prossimi giorni, mentre ha dovuto chiudere i battenti per diversi mesi la moschea di Pantin, nel periferia nordest di Parigi, per aver pubblicato sulla sua pagina Facebook un video contro il professore prima dell’omicidio. Alcuni osservatori cominciano a preoccuparsi dei metodi e dei toni di questa campagna, e le dichiarazioni del ministro della pubblica istruzione Jean-Michel Blanquier hanno contribuito ad avvelenare il clima. Blanquier ha dichiarato che oggi in Francia c’è una forma di “complicità intellettuale con il terrorismo” e che nelle università è diffuso “l’islamo-gauchismo”, che causa “gravi danni”. La conferenza dei rettori ha reagito indignata alle parole del ministro, ricordando che gli atenei non incoraggiano il fanatismo e che “l’università è, per definizione, un luogo di dibattito e di costruzione dello spirito critico”.
Alta tensione
Ma l’attentato arriva in un contesto di tensione massima per la comunità musulmana di Francia, che si sente stigmatizzata da mesi dal progetto di legge presentato ad agosto dal presidente Macron contro il “separatismo islamico”.
La legge, che ha suscitato da subito molte polemiche, nella logica del presidente dovrebbe servire a evitare che si creino delle contro-società all’interno della società francese, con il fondamentalismo come concetto dominante. Pur ammettendo la responsabilità dei politici francese nella ghettizzazione urbana dei cittadini di religione musulmana e dichiarandosi contrario a qualsiasi assimilazione tra semplici fedeli e militanti islamisti, Macron ha deciso di adottare una serie di strumenti per limitare la diffusione dell’estremismo (dall’obbligo scolastico a partire dai tre anni per tutti fino al contrasto ai finanziamenti esteri a moschee e associazioni islamiche francesi).
I musulmani di Francia, che rappresentano oggi oltre il 10 per cento della popolazione e che vivono nella loro stragrande maggioranza secondo le regole della repubblica, considerano questa nuova legge come un potente strumento di discriminazione. Secondo il professore dell’University College di Londra Philippe Marlière, è di fatto “bizzarro discutere della difesa della libertà di espressione in un paese in cui le libertà pubbliche sono state così drasticamente ridotte con le norme antiterrorismo (…) e dove ogni musulmano è ritenuto responsabile di ogni attacco islamista”.
Vista dal mondo arabo ed islamico, la Francia non sembra pronta a capire che lo scontro quotidiano contro i musulmani sta creando un’atmosfera favorevole proprio per quel tipo di estremismo che porta a questi odiosi attentati. Se la condanna dell’atroce omicidio è senza mezze misure anche sulla stampa araba, molti giornali insistono sulle reazioni più inquietanti dei politici e dei mezzi d’informazione francesi. Il quotidiano Al Quds scrive: “Se è comprensibile che i partiti razzisti e di estrema destra, come Marine Le Pen, ricorrano a questi toni di guerra, è invece sorprendente che alcuni partiti repubblicani seguano questo filone per conquistare le simpatie dei loro elettori”.
Contro l’ignoranza, la violenza barbara e le fake news convogliate dai social network, il professor Samuel Paty credeva nel potere dell’istruzione e diceva “la scuola può tutto”. È anche l’opinione di uno dei sindacati degli insegnanti francesi: “L’istruzione è un baluardo, una diga, ma non potrà mai, da sola, sanare le fratture di una società minata dalle disuguaglianze sociali e dalla discriminazione: sarà anche necessario fornire alla scuola i mezzi adeguati alla posta in gioco”.
Per ridare forza alla libertà di espressione e proteggerla, oltre alle operazioni di polizia, ci vorrebbe quindi un investimento colossale nell’istruzione, anche se i risultati concreti potrebbero arrivare ben dopo le prossime scadenze elettorali.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it