Il film semplicemente intitolato Mosul, uscito su Netflix il 26 novembre, prodotto dai fratelli Joe e Anthony Russo e diretto da Matthew Michael Carnahan, ha avuto fin dall’inizio una storia incredibile.
La conquista nel giugno del 2014 di Mosul, la seconda città più importante dell’Iraq, da parte del gruppo Stato islamico (Is) diventa presto il simbolo della potenza militare dell’organizzazione jihadista. Il 17 ottobre dello stesso anno comincia la controffensiva per liberare la città.
In quei giorni il giornalista Luke Mogelson del New Yorker sta seguendo il Nineveh swat team, un gruppo d’élite iracheno creato per dare la caccia ai terroristi più pericolosi. È guidato dal colonnello Rayyan Abdelrazzak, capo della polizia di Nineveh, nella regione di Mosul.
Tutti i componenti di questa squadra sono stati in qualche modo colpiti dall’Is: fisicamente, da proiettili ed esplosioni, o psicologicamente, dalla morte di una persona cara. Nel bellissimo articolo pubblicato nel 2017, The desperate battle to destroy Isis, Mogelson racconta:
Mentre l’Is attraversava la città, il comandante dello swat team, il colonnello Rayyan Abdelrazzak, raggruppava le sue truppe nell’hotel Mosul, un edificio a terrazze di dieci piani sulla riva occidentale del Tigri. Il suo gruppo ha mantenuto la posizione per quattro giorni, mentre i trentamila soldati dell’esercito iracheno di stanza a Mosul, quasi tutti provenienti da altre parti del paese, abbandonavano le armi e fuggivano.
Il film segue lo stile asciutto del racconto di Mogelson. Niente considerazioni geopolitiche contorte o grandi analisi orientaliste: i componenti del Nineveh swat team sono tutti di Mosul. Per loro, che da anni lavorano in polizia, il gruppo Stato islamico è una banda di criminali a cui non vogliono lasciare scampo, come spiega al giornalista il colonnello Rayyan:
Ci sono sempre stati dei poco di buono a Mosul. Negli anni novanta c’erano mafiosi che rapivano e uccidevano le persone e rubavano alla gente. Dopo l’arrivo dell’esercito statunitense, si chiamarono mujaheddin, jihadisti. Ora si chiamano Stato islamico. Ma sono solo criminali. Sono sempre stati solo criminali’.
Il film narra tre ore nella vita dei combattenti di Abdelrazzak: da quando il giovane poliziotto iracheno Kawa è salvato dallo swat team durante un agguato dell’Is, in cui ha perso lo zio, e viene arruolato nel gruppo.
Attraverso i suoi occhi non ci è risparmiata la cruda violenza dell’assedio, gli orrori che commette anche lo swat team, guidato chiaramente da una logica di vendetta. Ma, diversamente dai film hollywoodiani, la violenza non è mai esaltata.
Nella regia di Carnahan, assistito dal regista iracheno Muhammad al Darraji, la guerra è spogliata di tutto il suo nobile immaginario. Una scena emblematica mostra i combattenti d’élite condividere un pasto fatto di patatine e narghilè sul letto di una casa abbandonata mentre guardano una telenovela. La squadra non usufruisce di nessuna copertura militare, quindi non riceve supporto logistico. Manca anche un medico al seguito. Qualche minuto dopo questo momento di pace, alcuni di loro moriranno. E gli altri ripartiranno.
La morte è ineluttabile e la loro missione è irachena fino al traguardo finale, che Kawa ignora. Si tratta, senza svelare troppo, di recuperare la propria città, con una conclusione – la scoperta dell’obiettivo preciso – davvero straziante.
Attori straordinari
Il cast eccellente è guidato dall’attore iracheno Suhail Dabbash che ha anche fatto da tutor per insegnare l’accento iracheno agli altri attori arabi. Il pubblico l’avrà intravisto brevemente con indosso un giubbotto esplosivo nel film di Kathryn Bigelow The hurt locker per il quale durante il provino, ricorda l’attore, gli avevano chiesto di “dire qualsiasi cosa”.
In Mosul, Dabbash, che ha il ruolo di protagonista, si rivela un attore straordinario ed è stato acclamato alla mostra di Venezia, dove il film ha ricevuto una standing ovation di 7 minuti. Il cast era incredulo di questo cambiamento: per la prima volta in una produzione occidentale, agli attori arabi non è stato chiesto di pronunciare borborigmi da terroristi prima di farsi esplodere, ma di essere protagonisti di una storia che gli appartiene.
Per il gigante dello streaming statunitense, si tratta di guadagnare una fetta di mercato del mondo arabo, in concorrenza con il malesiano Iflix. Dal 2018, Netflix ha cominciato a produrre contenuti originali con la prima produzione giordana – non proprio riuscita – per adolescenti intitolata Jiin, o più recentemente la molto più interessante prima serie egiziana Paranormal tratta dal bestseller del maestro del thriller egiziano Ahmed Khaled Tawfik.
In Medio Oriente Mosul è stato un evento sui social network. Nella maggiore parte dei casi i commenti esprimono sorpresa nel vedere per la prima volta degli attori arabi protagonisti della loro storia, non considerati come spalle del “salvatore bianco”.
Gli osservatori iracheni sottolineano di più le considerazioni politiche. Il regista Hamid al Maliki trova il film “troppo semplice”: “per noi, questa storia è ancora una storia calda”. E lo salva solo per la performance “del nostro Suhail Dabbash”.
Per il blogger iracheno Haidar Mahbouba invece “Si tratta di un documento per la storia: le forze di mobilitazione popolari irachene da un lato e quelle iraniane dall’altro sono state le uniche a rimanere a Mosul per combattere contro il gruppo Stato islamico, quando tutti gli altri sono fuggiti o gli hanno fornito le armi”.
Tre giorni dopo l’uscita del film su Netflix, l’organizzazione jihadista – o qualche suo seguace – ha pubblicato una risposta: con il solito stile pacchiano del gruppo, Mosul, l’altra storia è un film di 52 minuti con le immagini di combattenti dell’Is, che usa addirittura il logo Netflix sul suo manifesto.
A riprova dell’importanza di continuare a condurre una guerra delle immagini – che non è proprio finita – per assicurarsi la narrazione finale sulla guerra di Mosul.
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