Nel blu tra il cielo e il mare è il nuovo libro della scrittrice americano-palestinese Susan Abulhawa (traduzione di Silvia Rota Sperti, Feltrinelli 2015). Forse non è un capovaloro letterario, ma sicuramente è un libro necessario, perché è ambientato a Gaza.
Il romanzo, raccontato dalla voce del misterioso Khaled, prende le mosse da Beit Daras, un placido paesino rurale della Palestina meridionale, poco lontano dalla Striscia di Gaza. La storia si apre negli anni quaranta con le vicende della famiglia Baraka, composta dall’anziana Umm Mamduh e i suoi tre figli, Mariam, Nazmiyeh e il piccolo Mamduh. Nel paese la famiglia è temuta e rispettata perché si crede che Umm Mamduh comunichi con il mondo dei ginn, gli spiriti o geni della tradizione araba, e che il ginn in esilio Sulayman sia il loro protettore.
Sulayman annuncia agli abitanti di Beit Daras il disastro imminente che sta per abbattersi su di loro all’alba del 1948, l’anno in cui fu fondato lo stato di Israele e che gli arabi ricordano come la nakba, la catastrofe. Ed è sempre Sulayman ad aiutare la famiglia Baraka a fuggire da Beit Daras e a rifugiarsi a Gaza, dove un fiume di persone si sta dirigendo per scampare ai bombardamenti israeliani.
Nel giro di pochissimo Beit Daras non esiste più e al suo posto sorgono gli insediamenti dei coloni israeliani. I suoi abitanti originari si trovano ora nel grande campo profughi di Nusseirat, nella Striscia di Gaza, dove vivono anche alcuni componenti della famiglia Baraka, mentre altri si trasferiranno negli Stati Uniti. Come nel precedente Ogni mattina a Jenin, il nuovo romanzo di Abulhawa è disseminato di episodi storici, spesso trascurati o dimenticati dalla storia ufficiale. Ma la vera protagonista del libro è l’instancabile vitalità degli abitanti di Gaza, e
questo lo rende una lettura necessaria: ci ricorda che nella Striscia non ci sono solo guerra e morte, ma anche nascite, feste, grigliate sul mare, e bambini che giocano e sognano un futuro.
Nel blu tra il cielo e il mare non è l’unica opera letteraria a mettere al centro la vita quotidiana a Gaza. In questi ultimi anni lo hanno fatto anche altri libri e diverse iniziative culturali.
Il Palestine festival of literature, nato su iniziativa della scrittrice e attivista egiziana Ahdaf Soueif (zia dell’attivista egiziano Alaa Abdel Fattah), dal 2008 porta in Palestina libri, scrittori e artisti arabi e internazionali, tra cui la stessa Susan Abulhawa, il nigeriano-americano Teju Cole, il singalese-canadese Michael Ondaatje e la libanese Hanan al Shaykh. Nel 2012 il festival è riuscito per la prima volta ad approdare a Gaza, dove ha avuto un grandissimo successo, nonostante le interminabili attese ai valichi, le interruzioni dovute alle misure di sicurezza e i divieti di ingresso per alcuni dei partecipanti.
Al festival ha partecipato anche Atef Abu Saif, accademico e scrittore nato nel 1973 nel campo profughi di Jabaliyya, nella Striscia di Gaza. Il suo romanzo Hayat mou’allaqa (Una vita sospesa) è entrato quest’anno nella sestina finale del Premio internazionale per il romanzo arabo, il premio letterario più importante della letteratura araba contemporanea. Il libro racconta la lotta quotidiana degli abitanti di Jabaliyya per condurre un’esistenza normale: “Il messaggio principale del romanzo”, ha dichiarato Saif in una recente intervista a Ramallah, “è che la vita a Gaza è solo una pausa tra due guerre, ma una pausa che merita di essere vissuta”. Una pausa doppiamente difficile per il territorio, stretto tra il blocco imposto dalla comunità internazionale nel 2007, dopo la vittoria elettorale di Hamas, e il controllo esercitato dal movimento islamico sugli abitanti della Striscia. Lo sa bene Saif, che è membro di Al Fatah e a cui Hamas non ha rilasciato in tempo il permesso per uscire dal valico di Erez, impedendogli così di partecipare alla Fiera del libro di Casablanca lo scorso febbraio.
Atef Abu Saif, che ha conseguito un dottorato in scienze politiche all’università di Firenze, è anche il curatore di The book of Gaza, una bella raccolta di racconti, scritti in arabo e tradotti in inglese, di autori giovani e meno giovani della Striscia (Comma Press, 2014): dieci piccole storie che raccontano l’amore, la speranza, la dignità e la resistenza dei suoi abitanti.
In The book of Gaza trova spazio anche la provocazione dell’artista Mohamed Abusal, nato nella Striscia nel 1976, autore nel 2012 dell’installazione Metro in Gaza. In uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, Abusal ha posizionato cinquanta diversi simboli luminosi, immaginando un’ipotetica rete di stazioni della metropolitana, e fotografando poi ognuna di queste “stazioni”. La sua provocazione si è ispirata all’esperienza degli abitanti di Gaza nello scavare i tunnel che collegano clandestinamente il territorio all’Egitto: perché non mettere a frutto questa esperienza trasformandola in un sistema efficiente e moderno di trasporto sotterraneo?
La normalità a Gaza è fatta anche di scorci di cielo e di mare, della città e dei suoi confini: li ha raccontati il fotografo Taysir Batniji, nato a Gaza nel 1966, con una serie di fotografie scattate tra il 1999 e il 2006. La serie Untitled (Gaza walls), contenuta nello splendido libro fotografico Keep your eye on the wall. Palestinian landscapes (Saqi Books, 2014), racconta invece di una duplice sparizione: quella dei martiri i cui volti avevano sostituito i poster sui muri di Gaza, e quella dei poster, sbiaditi dal tempo e dall’arrivo di altri martiri su quegli stessi muri.
Muri che di recente sono stati i protagonisti di una nuova performance di Banksy. L’artista britannico ha realizzato diversi graffiti a Gaza e li ha presentati in un video, in cui invita ironicamente gli spettatori a scoprire la nuova destinazione turistica dell’anno.
I giovani del Parkour team Gaza gli hanno risposto con un altro video in cui si propongono come guide turistiche per mostrargli cosa vuol dire vivere davvero nella Striscia.
Nella Striscia di Gaza, lunga dodici chilometri e larga quattro, la “pausa” tra le guerre è complicata: è difficile uscire, è difficile entrare, è difficile anche trovare il tempo e il luogo giusto per avere un po’ di intimità, come hanno raccontato i fratelli Tarzan e Arab Nasser. Nati a Gaza, sono autori del corto Condom lead, realizzato in risposta a Cast lead (Piombo fuso), l’offensiva israeliana del 2008-2009. Condom lead (preservativo di piombo) è stato candidato al premio per il miglior corto al festival di Cannes del 2013. Durante le guerra, come si fa a trovare il tempo per fare l’amore? Ogni tentativo, sembrano dirci i due, è sempre un atto di resistenza.
“Perché non abbandoniamo questa Gaza e fuggiamo? Perché non fuggiamo?”, chiedeva nel 1956 lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani, in una struggente lettera-racconto (contenuta in La terra degli aranci tristi e altri racconti, edito nel 2012 dall’Associazione culturale Amicizia Sardegna-Palestina e tradotto da Chiara Brancaccio). A Gaza “città mutilata, più stretta del respiro di uno che sogna”, rispondeva l’autore, si resta per imparare quale sia il significato della parola vita e quale sia il valore della resistenza.
Ma stiamo attenti a non crearne un mito, perché è la stessa Gaza a chiederci di non farlo: è carne, sangue e sassi e le faremmo un torto se la glorificassimo. Così scriveva nel 1973 il poeta palestinese Mahmoud Darwish in Diario di ordinaria tristezza (contenuto in Una trilogia palestinese, uscito per Feltrinelli nel 2014 nella traduzione di Elisabetta Bartuli e Ramona Ciucani). Le sue ferite, le sue esplosioni di vita e di morte, sono “il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere”.
Non è vero che da sessant’anni a Gaza vince la guerra. A Gaza da sessant’anni vince la vita. Nonostante la guerra.
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