The return. Fathers, sons and the land in between (Penguin 2016) è l’ultimo libro di Hisham Matar, scrittore di origini libiche che vive tra Londra e New York.
Il tema centrale del libro, di cui a breve uscirà la traduzione in italiano per Einaudi, è la ricerca del padre: un tema non nuovo per Matar, che lo aveva già affrontato in due romanzi precedenti (Nessuno al mondo, Einaudi 2006; Anatomia di una scomparsa, Einaudi 2011) ma che in The return diventa ancora più personale.
The return infatti non è un romanzo, anche se si legge come tale. È il racconto struggente e potente di un ritorno in patria, quello dell’autore stesso, dopo un esilio durato più di trent’anni, e della ricerca di un padre scomparso, il suo. Ma è anche un’autobiografia, un diario, una cronaca giornalistica, un giallo, un lungo poema in prosa e un volume di storia recente sulla Libia.
Il libro si apre con il ritorno dell’autore a Tripoli nella primavera del 2012, in un paese finalmente libero dalla dittatura che lo aveva strangolato per 42 anni. Hisham Matar viene da una famiglia di dissidenti politici conosciuti in tutto il paese. Suo nonno, Hamed, aveva lottato contro il colonialismo italiano. Suo padre, Jaballa, un industriale, un intellettuale e un attivista, era diventato in breve tempo la figura principale tra gli oppositori al regime di Gheddafi.
Costretto all’esilio in Egitto con la famiglia, organizzò la resistenza (anche armata) da lì. Furono i servizi segreti egiziani a denunciarne la presenza ai loro colleghi libici, che ne organizzarono il rapimento e il rimpatrio in Libia. Era il 1989, Hisham Matar aveva 18 anni e studiava all’università a Londra. Da allora, Jaballa Matar scomparve nel nulla.
La famiglia Matar riuscì a sapere tramite una lettera tardiva che Jaballa si trovava in Libia, nella terribile prigione di Abu Salim. Ma erano già passati tre anni dalla sua scomparsa. Tre anni senza avere notizie di quell’uomo riservato ma sempre presente, poeta e scrittore che intratteneva i suoi ospiti declamando poesie. Un uomo innamorato del suo paese, che voleva liberarlo dal giogo di Gheddafi, e che aveva investito i risparmi di una vita per formare la resistenza al regime dall’estero. Un figlio affettuoso, che dall’Egitto un paio di volte l’anno rientrava clandestinamente in Libia per andare a trovare l’anziano padre.
Hisham Matar ci fa entrare in quel dolore che lo imprigiona senza scampo
Dopo quelle prime lettere, della sorte di Jaballa Matar non si è più saputo nulla: né la data certa della morte, né il luogo, né come morì. Hisham Matar ha passato anni a domandare, ricercare e investigare senza avere risposte. Solo quando, dal 2002, le sue domande hanno trovato una sponda in interlocutori importanti come il governo britannico e Amnesty international, il regime libico si è mosso dicendosi pronto a rivelare finalmente alla famiglia che fine avesse fatto Jaballa Matar.
Hisham Matar ha avuto estenuanti colloqui (che riporta nel libro) con Saif al Islam, il figlio “riformatore” di Gheddafi, che aveva promesso di rivelargli i dettagli sulla vicenda del padre. Poi sono scoppiate le rivolte arabe e il regime di Gheddafi è finito gambe all’aria, come anche le presunte rivelazioni di Saif.
Sua compagna e suo destino
Quando ritorna nei luoghi della sua infanzia, lo scrittore incontra parenti, amici, conoscenti del padre che lo sommergono di ricordi. Gli zii e i cugini, ex compagni di prigione del padre, ricordano quando Jaballa, in isolamento, recitava le poesie e lo potevano sentire dalla loro cella. Quando incontra un uomo convinto di averlo intravisto in carcere, vorrebbe poter scambiare i suoi bulbi oculari con quelli che hanno posato lo sguardo sul padre forse per l’ultima volta.
A tutti chiede di quel padre scomparso, e la domanda, sottintesa, straziante e universale è sempre una: è morto, mio padre? Quell’incertezza in cui vive da quando il padre è scomparso definisce la sua vita, è sua compagna e suo destino. Impossibile eludere quel senso di incompiutezza che il non sapere porta con sé. Impossibile, per il lettore, non avvertire quello strazio dell’anima, quella pena che non si attenua mai, quella malinconia che nulla può lenire.
Hisham Matar ci fa entrare in quel dolore che lo imprigiona senza scampo, ci porta per mano negli angoli più appuntiti della sua personale sofferenza e lo fa con un linguaggio commovente e poetico e attraverso passaggi pieni di lirismo.
Il corpo di mio padre non c’è più, ma il suo posto è ancora qui ed è occupato da qualcosa che non può essere chiamato semplicemente ricordo. È vivo ed è presente qui, ora. Come potrebbero le complessità dell’essere, la meccanica della nostra anatomia, l’intelligenza della nostra biologia, l’infinito firmamento della nostra interiorità – i pensieri e le domande e i desideri e le speranze e la fame e le mille e una contraddizioni che abitano dentro di noi in ogni momento – come potrebbero avere una fine che corrisponde a una data su un calendario? (Traduzione di Chiara Comito)
Matar si paragona a Telemaco che aspetta il ritorno di Ulisse, ma il suo Ulisse è un nome scomparso, un volto sbiadito, un ricordo scheggiato che balza fuori nei momenti più impensati.
Il suo percorso di ricostruzione della memoria e della verità si riflette anche nella struttura del libro, che procede a spezzoni tra le epoche e le città. Il lettore percorre con Matar la Libia coloniale, quella di Gheddafi e quella successiva alle rivolte arabe. Viaggia con lui tra le città libiche e Londra, Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Roma e New York.
La vicenda della famiglia Matar riecheggia quella dei tanti esuli, dissidenti e attivisti arabi che si sono opposti al regime dispotico di turno e le cui storie sono narrate nella letteratura: le fanno eco, come in un gioco di specchi, gli intellettuali siriani descritti in La conchiglia di Mustafa Khalifa (Castelvecchi) e Il silenzio e il tumulto di Nihad Sirees (Il Sirente), l’Iraq kafkiano di Rapsodia irachena di Sinan Antoon (Feltrinelli), gli intellettuali marocchini degli anni di piombo (Sole nero. Anni di piombo in Marocco, Mesogea), la solitudine dell’egiziano Sonallah Ibrahim nel suo La commissione (Jouvence).
La violenza del colonialismo italiano
Molto probabilmente Jaballa Matar morì nell’eccidio della prigione di Abu Salim del 1996, insieme ad altri 1.270 detenuti. Li uccisero a gruppetti, poco alla volta. Il primo gruppo morì per una granata lanciata da uno dei carcerieri, poi seguirono tutti gli altri. I cadaveri, racconta nel libro uno zio di Hisham Matar che fu testimone della strage, furono lasciati marcire al sole per quattro giorni e poi gettati in una fossa comune.
Nessuno fu mai ritenuto responsabile per quella strage e ancora adesso, a distanza di vent’anni, non si conoscono i nomi di tutti i detenuti uccisi. Di quelli di cui si sapeva per certo che fossero morti lì, le autorità libiche cambiarono i registri e scrissero che erano morti per “motivi naturali”. Nella Bengasi del dopo Gheddafi, i libici hanno raccolto le foto dei morti in quello che sarebbe dovuto essere un memoriale e che chissà se oggi c’è ancora.
Ma c’è un altro motivo per cui bisogna leggere The return: protagonista di molte pagine è anche la violenza del colonialismo italiano, che arrivò in Libia nel 1911, sfiancò la resistenza, separò famiglie, deportò un’intera generazione di intellettuali, creò giganteschi campi profughi e torturò gli oppositori. C’è un capitolo importante della storia recente del nostro paese che conosciamo poco e male e che è contenuto in questo libro. Ma Matar non chiede vendetta, non invoca giustizia, non porta rancore. Ed ecco anche perché dovremmo leggerlo tutti.
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