“In un mondo perfetto non si lancerebbe alcuno stigma sull’essere una vittima di una violenza sessuale”. Comincia così un editoriale dell’autrice statunitense Jessica Valenti di qualche giorno fa. In quel mondo perfetto e inesistente, le vittime potrebbero raccontare quello che hanno vissuto senza temere di essere insultate, umiliate o minacciate.
I giornalisti potrebbero usare i loro nomi senza paura di esporle a rischi. Ma non viviamo in un mondo perfetto né in uno che gli si avvicini e quindi, secondo Valenti, dobbiamo proteggere l’anonimato delle vittime.
Il caso del presunto stupro di gruppo nell’università della Virginia ha riacceso la discussione su come raccontare e come non sbagliare, su come non sacrificare il rigore in nome dell’empatia e sull’ipotesi di raccontare solo le storie di chi non richiede l’anonimato (la Chicago taskforce on violence against girls & young women ha curato una “cassetta degli attrezzi” per i giornalisti).
Parlare di stupro è molto difficile. Non solo a causa della cosiddetta cultura dello stupro e della tendenza a prendersela con le vittime. Quando le vittime sono donne (nella maggior parte dei casi) ci sono i pregiudizi: “se l’è cercata”, “la gonna era troppo corta” o “la camicia troppo scollata”. Quando sono uomini si aggiunge l’incredulità di genere e lo stigma della debolezza: “Ma come, non ti sei ribellato?”.
Il potere è un elemento cruciale non solo nello stupro in sé ma nella minaccia, esplicita o taciuta, del dopo. “Parlerai? Racconterai quello che è successo? Stai attenta, la troia sarai sempre tu e il prezzo più alto lo pagherai comunque tu” (e questo accade perfino negli scandali sessuali senza che vi sia abuso o violenza: se il fedifrago è lui, lo scandalo investirà pure la fidanzata o la moglie che non ha fatto nulla, se non sposare un fedifrago).
Per molto tempo nell’ordinamento italiano la violenza carnale è stata un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona
Le vittime spesso subiscono più di una violenza e non solo quella originaria. Per molto tempo nell’ordinamento italiano la violenza carnale è stata un reato contro la moralità pubblica e non contro la persona.
Ma ci sono inciampi pericolosi anche sul fronte giusto, su quello che vuole opporsi allo stigma. E forse sono più pericolosi dei primi, perché offrono un lato debole, un pretesto per mantenere le vittime “al posto loro”.
È comprensibile che spesso sia necessario essere brutali e grossolani per opporsi a un pregiudizio radicato, che si tenda a forzare e a usare anche argomenti non abbastanza forti perché il fine è comunque buono. Tuttavia questo modo di procedere è discutibile non solo in via di principio ma anche da un punto di vista strategico: rendersi attaccabili è rischioso perché si finisce per cadere anche quando meriteremmo la vittoria.
La presunzione d’innocenza
Spesso sembra non valere ciò che vale per gli altri crimini, ovvero la presunzione di innocenza e la necessità di dimostrare che lo stupro ci sia stato. Che sia difficile e che il clima sia a volte “impossibile” non dovrebbe eliminare queste due premesse, perché il risultato sarebbe peggiore non solo per la procedura penale ma in ultima analisi anche per la corretta ricostruzione degli avvenimenti e dunque per la punibilità di tutti gli stupri.
Non riuscire a dimostrare uno stupro, poi, non implica che il fatto non sia avvenuto ma solo che è impossibile dimostrarlo, e quindi non vuol dire necessariamente che la vittima presunta abbia raccontato una bugia ma solo che non siamo riusciti a eliminare il cosiddetto legittimo dubbio (si pensi al caso Bill Cosby).Succede in molti reati e presunti tali. A volte in modo eclatante (O.J. Simpson, Robert Durst), ma la necessità di dimostrare la colpevolezza di qualcuno rimane la meno peggiore delle strade. Perché provare l’innocenza di una persona è un procedimento penale atroce, e perché è meglio rischiare di non riuscire a condannare un colpevole che mandare un innocente in galera. La rabbia della vittima o di chi ha a cuore la giustizia è comprensibile, ma la rabbia di rado ci consiglia bene. E se dovessimo seguire la collera non sarebbe allora meglio mandare qualcuno a picchiare il carnefice? Sarebbe più rapido, eviterebbe il processo e le domande spesso ripugnanti e impietose.
La rabbia della vittima o di chi ha a cuore la giustizia è comprensibile, ma la rabbia di rado ci consiglia bene
Dimostrare è difficile perché spesso il disaccordo sta nell’intenzione (consenso esplicito o implicito) e non si tratta solo di verificare se un rapporto sessuale (imposto) sia avvenuto o meno.
Anche un furto si distingue da un regalo attraverso la stessa sottile linea dell’intenzione. E se io dico che tu mi hai regalato quell’orologio Daytona e tu sostieni che te l’ho rubato, come risolviamo il dilemma?
Prima di essere travolta dallo sdegno aggiungo: lo stupro non è un orologio, ma l’analogia vuole illuminare la difficoltà di “dimostrare” le intenzioni e di ricostruire gli avvenimenti per poi condannare o assolvere.
Anche una volta stabiliti alcuni princìpi, purtroppo non ancora chiari a tutti, provare che sono stati violati potrebbe non essere facile o possibile.
“No” non vuol dire “sì” (a meno che non sia un gioco predefinito, negli altri casi vale il senso letterale del diniego) e il consenso è cruciale: non vuol dire che ogni volta dobbiamo firmare un contratto come chiede Mr. Grey ad Anastasia in Cinquanta sfumature di grigio, ma che il consenso è una condizione necessaria e può essere revocato in qualsiasi momento. E se non è stato specificato in precedenza, sarebbe meglio evitare casi in cui non sia possibile esprimerlo, come quando lui è abbastanza lucido e lei completamente sbronza (ma sull’alcol e lo stupro dovremmo tornare).
I consigli per evitare uno stupro rinforzano lo stigma?
Ogni volta che si parla di “consigli” (come: “non ti ubriacare in un contesto non familiare”, “non uscire da sola di notte”, e così via) una reazione comune è di condannarli come giustificazioni preventive degli stupratori. È facile capirne le ragioni, ma gli effetti collaterali negativi rischiano di essere più gravi del male che si vuole evitare, ossia alimentare la cultura della colpa e della istigazione, che va giustamente annientata.
Quando si dice di non lasciare la porta di casa aperta per evitare di essere derubati si sta forse giustificando l’eventuale furto?
Insegnare o pensare che difendersi sia utile non deve implicare una giustificazione dell’aggressione (ma sembra anche bizzarro non gestire il rischio, cercando di diminuirlo, perché l’invito a farlo potrebbe essere male interpretato).
Il pensiero “possiamo fare quello che ci pare senza dover essere stuprate (aggredite, uccise, fatte a pezzi)” rimane un principio giustissimo. Ma pure avere il senso della realtà è utile. Perciò mentre costruiamo il mondo ideale sarebbe meglio chiudere la porta di casa e cercare di evitare situazioni pericolose perché attraversare la strada a occhi chiusi, perfino sulle strisce pedonali, non ha mai impedito agli automobilisti di investire i pedoni.
Considerando poi che molte violenze sono compiute da persone che conosciamo, saperlo, essere in grado di capire e di evitarle, non è così irrilevante.
Insomma, la demolizione dei “te la sei cercata” non dovrebbe sacrificare la conoscenza e la valutazione dei rischi. E se siamo abbastanza bravi dovremmo poter avvertire le potenziali vittime senza essere accusati di ammiccare al carnefice, e magari ricordarci che la reazione passa anche tramite l’empowerment di chi è considerato debole e indifeso. La prima condizione del potere – quello buono, non quello abusato nella violenza sessuale – è conoscere la realtà.
Mentre impariamo a parlare alle vittime e delle vittime, ricordiamoci che lo stupro ha a che fare con il sesso come l’alcolismo ha a che fare con il piacere enogastronomico (forse ancora meno).
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