Il 4 febbraio è cominciata la discussione sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Per l’ennesima volta si cercherà di affrontare una questione abbastanza semplice: possiamo scegliere se e come curarci? Sì, possiamo. E questo significa che possiamo anche rifiutare qualsiasi trattamento, farmaco, terapia o “alleanza terapeutica”.
E potremmo prevedere degli strumenti per prolungare la nostra volontà nel tempo? Sarebbe augurabile, per evitare che l’impossibilità di esprimere una volontà ci privi della possibilità di scegliere.
Che poi è quello che già succede con il consenso informato. Firmiamo ora consentendo a un trattamento in un tempo futuro (si pensi a un intervento chirurgico e a una lunga anestesia). Certo, in genere quel tempo è breve mentre nel caso delle dichiarazioni anticipate di trattamento può essere più lungo. Ma il principio dovrebbe rimanere intatto. Le domande dovrebbero quindi riguardare solo gli strumenti migliori per garantire una scelta libera e valida nel tempo.
A guardare i disegni di legge, però, sembra che il principio non sia ancora del tutto digerito e che ogni dibattito sulle dichiarazioni anticipate offra l’occasione per riprendersi un pezzo di libertà concessa agli individui.
È evidente leggendo la proposta di legge d’iniziativa dei deputati Binetti, Buttiglione, Cera, D’Alia e De Mita, Disposizioni relative all’alleanza terapeutica, in materia di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, presentata il 30 marzo 2015:
L’aspetto più insidioso nella posizione dei fautori del principio di autodeterminazione nella sua formulazione assoluta è quello di ribadire, come già rilevato, il diritto alla non attivazione o all’interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salva-vita. La somministrazione di cibo e di acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. È quindi obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la finalità che gli sono proprie: assicurare idratazione e nutrizione al paziente, evitandogli le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione. Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e di cibo, anche quando avviene per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico.
Non stiamo parlando del principio di autodeterminazione “nella sua formulazione assoluta”, ma più semplicemente di autodeterminazione (o posso scegliere o non posso). Rispetto alla mia possibilità di decidere come preferisco, il carattere ordinario o straordinario di un trattamento è irrilevante. Chi tenta la strada dell’ordinarietà per giustificare l’obbligo in genere dimentica di dire che quando parliamo di nutrizione e idratazione artificiali ci vuole un consenso informato (perché sono trattamenti medici e comportano anche dei rischi). Chi cerca di aggirare lo statuto medico, poi, sembra ignorare che nessun atto è obbligatorio “in quanto non medico”.
La spiegazione seguente sembra essere ancora più insoddisfacente:
Il dibattito sulla nutrizione e sull’idratazione medicalmente assistita, se sia un trattamento di tipo medico (e come tale possa rientrare tra i desiderata del paziente) o se sia invece un sostegno vitale (e come tale vada sempre assicurato al paziente), può diventare un distrattore rispetto a un nuovo punto critico, che riguarda il diritto del paziente al rifiuto o alla rinuncia delle cure: di tutte le cure. Il diritto alla non attivazione o all’interruzione delle cure, quando si tratta di cure salva-vita, la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole e non può rientrare nella logica dell’ora per allora, tipica delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Torna la bizzarra convinzione che un sostegno vitale possa o debba essere obbligatorio, e torna anche la volontà di limitare fortemente i confini della nostra possibilità di scegliere. Il tempo, come dicevo, può sollevare qualche difficoltà di interpretazione della nostra volontà, ma la non attualità non è una scusa abbastanza forte per privarci della scelta. Per lasciare che sia qualcun altro a decidere se e fino a quando farci passare nutrimento e liquidi da un tubo infilato nella nostra pancia (cui magari non abbiamo nemmeno consentito) o attraverso un sondino nasogastrico.
Il punto è ancora più chiaro nel comma 4 dell’articolo 3, Contenuti e limiti della dichiarazione anticipata di trattamento:
Nel rispetto della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, resa esecutiva dalla legge 3 marzo 2009, n. 18, l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui esse non siano in grado di fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari per garantire le sue funzioni fisiologiche essenziali. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento.
Il diritto a ricevere cure e assistenza diventa un dovere cui non è possibile sottrarsi. Perché la vita è sacra e non possiamo disporne.
Non ci vengono risparmiate nemmeno le lezioncine di vita. Perché anche se non lo abbiamo chiesto, è per il nostro bene:
Non si può giudicare il dolore altrui, ma riflettere si può e si deve. Brittany ha detto di voler “morire con dignità”, come se la sofferenza le rubasse dignità. Ma non è vero: dirlo è una trappola. Anche se una risposta al senso del dolore nessuno la possiede, occorre prepararsi per misurarsi con esso quando arriva. La vita è preziosa in ogni sua stagione. Troppo bella per essere sciupata o vissuta solo quando il cielo è terso. È un dono che occorre respirare a bocca spalancata. Anche quando arranca, quando si fa severa e dura. Nell’amore, dunque, si nasconde il segreto del vivere e del morire
Brittany Maynard era una donna statunitense con un tumore cerebrale incurabile e con sintomi difficilmente trattabili. Non aveva deciso di morire, ma di anticipare la sua morte cercando di risparmiarsi le conseguenze più insopportabili. Chi vuole “si misura” con il dolore, ma non deve certo essere un obbligo anche per chi non crede che vi sia alcun senso salvifico nella sofferenza.
Chi vuole cercare “una risposta al senso del dolore” è libero di farlo, senza pretendere che la sua scelta debba valere per tutti.
“Senza nulla togliere al valore della libertà, che ognuno di noi ama appassionatamente, anche coloro che vogliono una legge sull’eutanasia, la questione in gioco è un’altra. Questa libertà pretesa conduce solo ed esclusivamente alla morte”. È ovvio che per “libertà” si possono intendere cose molto diverse. Alla morte per ora non abbiamo trovato rimedio. Magari Binetti e Buttiglione ci sapranno dire prima o poi come evitarla.
La proposta di legge d’iniziativa dei deputati Roccella, Alli, Binetti, Matteo Bragantini, Buttiglione, Calabrò, Centemero, Fedriga, Fucci, Gigli, Laffranco, Latronico, Leone, Minardo, Pagano, Palmieri, Saltamartini, Squeri, Tancredi, Vignali, Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, presentata il 26 marzo 2014, è afflitta dagli stessi problemi. Non si può scegliere sulla nutrizione e idratazione artificiali. L’altro aspetto tipico di un’impostazione fortemente coercitiva è sostenere la non vincolatività delle dichiarazioni anticipate, che solleva il serissimo problema: ma se la mia volontà non è vincolante perché dovrei perdere tempo a esprimerla?
Una legge che non si liberi di queste pesanti intromissioni nella nostra libertà – intesa come possibilità di scegliere e come assenza di coercizione legale – non potrà che essere una legge orribile. E in questo caso non c’è che augurarsi che la discussione si areni ancora una volta in queste paludi paternalistiche.
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