È una buona notizia. Ai Weiwei è stato liberato. Dopo il pagamento di una cauzione e, secondo quanto affermano le autorità, dopo aver ottenuto la promessa del pagamento delle imposte su somme di denaro che l’artista non aveva dichiarato al fisco. Può darsi. Come forse può darsi che sia una di quelle “confessioni” che spesso i regimi totalitari ottengono comunque, per mezzo di torture fisiche o psicologiche, e che vengono usate contro i loro oppositori. Sicuramente Ai Weiwei avrà sofferto molto, ma paradossalmente il vero perdente in questa vicenda è il governo cinese. Perché l’artista difensore dei diritti umani, conosciuto da pochi appassionati di arte contemporanea, ora si è trasformato in un’icona.

Un’immagine declinata in tutto il mondo, in ogni possibile forma, in manifestazioni, gallerie e musei, su magliette e striscioni. Sembra quasi che la diffusione della sua immagine sia legata al fatto che Weiwei esprime la sua protesta con opere figurative, mentre, di solito, i blogger militanti che fanno resistenza attraverso le parole restano solo dei nomi senza volto. Comunque, le autorità di Pechino hanno distrutto i duemila metri quadrati dell’atelier di Weiwei, dove l’artista ha creato la maggior parte delle sue immagini. Ma non sono riuscite a tenerlo chiuso in prigione, e così senza volerlo l’hanno trasformato in un personaggio pubblico.

Internazionale, numero 904, 1 luglio 2011

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