La notizia della morte di Neil Armstrong, il primo uomo sulla luna, è un po’ dappertutto in questi giorni. Ma, stranamente, è una notizia che non lascia spazio ad alcuna immagine, lasciando invece spazio alla memoria. Il 20 luglio del 1969 fui autorizzato a stare in piedi fino a tardi e ad andare dai nostri vicini di casa che avevano la tv per seguire quello che sembrava un inverosimile frammento di un verosimile futuro, in diretta.
La tv era in bianco e nero e non si vedeva granché. Più che altro ombre accompagnate da voci gracchianti di cui non si capiva molto senza la traduzione. Ma erano parole destinate a entrare nella storia. Come me, altri cinquecento milioni di persone seguirono quell’avvenimento, e bisogna ammettere che l’emozione fu grande. Per vedere qualche immagine nitidia si dovette aspettare la settimana successiva, quando cominciarono a uscire le prime foto, a doppia pagina, sui settimanali. Io le vidi su Paris Match.
L’immagine destinata a rimanere nella memoria collettiva fu quella dell’impronta: la traccia striata di un
moon boot sul suolo lunare che sembrava fatto di cenere. Immediatamente ci fu chi cominciò a insinuare che si trattava di un falso, di una manipolazione. A giudicare da quello che si vedeva i dubbi erano anche legittimi. Ma nessuno aveva il diritto di mettere in discussione il sogno, il coraggio folle di un’impresa fuori dal comune.
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