Il renzismo – ossia quella retorica della sinistra nuova, veloce, rottamatrice, che sbeffeggia gli avversari – finisce oggi. La rapidità può essere un valore molto ambivalente: alle volte può significare essere effimeri.
La sconfitta clamorosa del Partito democratico alle elezioni amministrative è l’esito scontato di una strategia politica non fatta per durare. La vittoria del Movimento 5 stelle a Roma e a Torino, e di De Magistris a Napoli, è soprattutto una risposta franca all’arroganza di una classe politica incapace di ammettere gli errori e porvi rimedio: dalla cacciata dell’ex sindaco Ignazio Marino alla decisione di commissariare per quasi un anno il comune di Roma alle responsabilità in Mafia capitale, dall’alleanza non solo provvisoria con Denis Verdini alla crisi della rappresentanza in tutto il sud Italia alla mancanza di consenso sulla Buona scuola o sul Jobs act.
Una incapacità di interpretare i sentimenti e le idee persino dei propri elettori, che è diventata eclatante nelle ultime due settimane di campagna elettorale per il ballottaggio: un tempo ulteriore in cui il candidato sindaco Roberto Giachetti ha insistito su un tema astratto come le Olimpiadi o in cui Matteo Renzi ha continuato a liquidare il voto come un incidente di percorso nel lungo viaggio trionfale verso l’approvazione della nuova legge costituzionale.
Con il disastro elettorale di ieri muore quel pasticcio ideale che era il fantomatico partito della nazione
Con il disastro elettorale di ieri – limitato solo da risultati come quelli di Milano, Bologna o Cagliari, dove a vincere è un centrosinistra che si è giovato delle buone pratiche di governo locali – muore quel pasticcio ideale che era il fantomatico partito della nazione. Ma è destinata a svanire soprattutto, speriamo, quella tracotanza spaccona che aveva trasformato lo spirito guascone della Leopolda in una forma di nonnismo politico, con gli epiteti infantili lanciati nei confronti dei contendenti: spariscono i ciaone, i gufi.
E diventerà anche molto complicato derubricare il voto così ampio per i cinquestelle come quello romano quale un’espressione populista o di protesta o addirittura un salto nel buio o la scelta di un’incapace, soprattutto dopo che Virginia Raggi ha anticipato alcuni nomi credibili per la sua giunta. Al tempo stesso il Pd romano, e quello nazionale di conseguenza, dovrà essere molto serio nell’ammettere le responsabilità dell’aver dilapidato, con la maldestra gestione del caso Marino, anche le buone esperienze dei municipi: ossia di aver bruciato le legittime attese di quelli che potevano diventare una classe di bravi amministratori.
Soltanto da questo tipo di ammissione potrebbe nascere una qualche credibilità per un partito che deve reinventarsi ex novo, dopo aver seguitato a credere a una narrazione fiacca a cui praticamente nessuno ha più dato credito.
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