Cosa avrebbe scritto David Foster Wallace a proposito dei social network? Come avrebbe raccontato il movimento Occupy Wall street? E l’elezione di Donald Trump? E la crisi della democrazia rappresentativa? E il #MeToo? C’è una dolorosa ovvietà nel constatare il vuoto di riflessione e d’immaginazione, di parole, di concetti inediti, di quella complessità febbrile che ha lasciato uno scrittore come lui, nel racconto e nell’analisi del mondo. Il Wallace sempre politico, sia quando interveniva nel dibattito pubblico sia quando scriveva romanzi, racconti, saggi, reportage. L’autore che genera allo stesso tempo ammirazione e inadeguatezza in chi lo legge.
Il 12 settembre 2008 Wallace si impiccò nel garage di casa a Claremont, in California. Per anni aveva seguito una terapia antidepressiva che funzionava, poi aveva dovuto sostituire un farmaco e le cose erano andate di male in peggio. Lasciava una moglie con cui si era sposato da poco, un romanzo incompiuto, circa 10mila pagine pubblicate (un numero impressionante per un autore di 46 anni, così raffinato e poliedrico), e lo strazio in tutti coloro che avevano interpretato la sua analisi delle tossicità e delle depressioni di massa come un esorcismo, e che ora sono costretti a ripensarle come una profezia.
C’è un prima e un dopo quel 12 settembre. “Che Wallace non fosse largamente riconosciuto come un ‘grande’ scrittore quando era vivo è un fatto che è stato velocemente dimenticato”, scriveva Laura Miller nel 2015, mettendo in guardia sui rischi della trasformazione dello scrittore in icona, della sua santificazione. Dopo la morte, la sua figura è stata riscritta secondo i canoni di un’anima in pena, rappresentante di una generazione sconfitta, critico della società finito per diventare vittima della sua stessa sociopatia.
Per chi ha cominciato a leggerlo dopo la sua morte il problema è stato evitare di farsi condizionare dalle tracce di depressione nelle sue opere, non leggere la sua iconoclastia come un sintomo di autodistruzione o la sua poliedricità come mera ossessione. A volte l’editoria e il giornalismo hanno peggiorato le cose: promuovere il memoir sul lutto della moglie Karen Green, Il ramo spezzato, presentandolo come una specie di spin-off postumo della bibliografia di Wallace e non come un libro che non nomina nemmeno lo scrittore per nome e cognome è fuorviante; e allo stesso modo è meschino incentrare il dibattito su Wallace e sulla sua opera basandosi sulle parole di Mary Karr, che lo ha accusato di molestie e stalking.
Uno scrittore di nicchia
Io l’ho letto la prima volta nel 1997: in una libreria internazionale di Roma lo scrittore Tommaso Pincio mi consigliò questo autore di 35 anni che scriveva saggi narrativi sul tennis, su David Lynch, sulla televisione, sulle fiere di cibo nell’Illinois, con uno stile immaginifico, divertentissimo, tutto in accumulo. Comprai la raccolta che in inglese s’intitola A supposedly fun thing I’ll never do again; due anni dopo facevo una prova insieme a Martina Testa per tradurlo in italiano.
Per parecchi anni è stato uno scrittore di nicchia. Lo leggeva chi si sentiva solo, o chi era molto scettico verso i beni di conforto della società dell’informazione. Dopo il 2008, i lettori hanno avuto a disposizione altre vie di accesso alla sua opera: la biografia scritta da D.T. Max, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi; il lungo libro-intervista di David Lipsky, Come diventare se stessi, da cui è stato tratto il film The end of the tour. Chi ha letto questi libri non ha potuto emanciparsi dall’idea che il genio e il talento di Foster Wallace fossero legati ai suoi demoni.
Ma non è solo la sua morte assurda a trasformare molti suoi lettori in fan, è la generosità della sua scrittura che innesca il desiderio di far parte di una comunità di compagni. Per molti versi Wallace resta uno scrittore universitario, centrale proprio perché ha continuato a difendere un modello di pensiero critico mentre il mondo dell’università andava in crisi.
Neofiti e cultori
I neofiti in genere cominciano dal “reportage sulla crociera”, Una cosa divertente che non farò mai più, tratto dalla sua prima omonima raccolta di nonfiction. I cultori si cimentano per un annetto con le 1.500 pagine del romanzo-mondo Infinite jest. I fissati si leggono Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito o addirittura Fate, time, and language: an essay on free will, la sua tesi di laurea sulla semantica modale, pubblicata nel 2010.
In Italia la storia editoriale di Wallace è stata felice e lunga, come ha ricostruito Norman Gobetti. È cominciata con Per sempre lassù, racconto tradotto da Edoardo Albinati per un numero di Panta nel 1993, e La ragazza dai capelli curiosi, incluso nell’antologia Nuovi narratori americani pubblicata da Theoria nel 1994. Einaudi Stile Libero, minimum fax e Fandango hanno incastonato quest’autore nella spina dorsale del catalogo editoriale italiano.
Va reso merito agli editori e ai traduttori che hanno saputo aver cura di uno scrittore complessissimo, anche se le ultime uscite forse potevano essere evitate. Ha avuto senso pubblicare Il re pallido facendo finta che fosse un romanzo compiuto e non una bozza? Ha senso quella specie di grossa antologia intitolata Portatile? Ha senso la piccola bugia che ci diciamo sui suoi libri, e cioè che Wallace è sempre uno scrittore coinvolgente e fantastico, che non resta che tuffarsi nelle sue pagine? Non è così: spesso i suoi libri sono complicati, respingenti, al limite del fallimento – come capita a chi coltiva sempre grandi ambizioni. I racconti di Brevi interviste con uomini schifosi sono uno dei classici della letteratura, dentro Oblio ci sono capolavori e cose meno riuscite.
Eppure c’è qualcosa che vale la pena di cercare nei testi di questo autore, anche in quelli più artificiosi e sperimentali. Ed è il godimento che dà la conoscenza: la narrativa speculativa di Wallace è densa e cerebrale, ma riesce a essere avvincente perché è anche un continuo esame morale.
Cresciuto con maestri del post-moderno come Thomas Pynchon, John Barth, Donald Barthelme, ebbe un ripensamento a poco più di vent’anni. Dopo poco spostò la sua riflessione letteraria dal tema della crisi dell’autore a un ambito più schiettamente sociopolitico. La sua dichiarazione di poetica più sincera si trova in Verso Occidente l’impero ritrova il suo corso, ma non è difficile leggere l’intera opera di Wallace come un’espressione di sfiducia nei confronti del capitalismo americano neoliberista e criptofascista.
“Nessuna generazione è mai stata commercializzata, manipolata, e imbonita come quella che costituisce la fascia demografica dei giovani”, scrive nel 2000 in Forza, Simba. È ancora una bellissima scoperta leggere questo saggio su John McCain, soprattutto alla luce dei recenti elogi del politico repubblicano morto il 25 agosto scorso. Così come lo è La vista dalla casa della signora Thompson, il racconto che pubblicò pochi giorni dopo l’11 settembre 2001, contenuto nella raccolta Considera l’aragosta. Nelle molte interviste che rilasciò – su YouTube ce ne sono di belle e lunghissime; il volume Un antidoto contro la solitudine ne raccoglie diverse – rileggeva la sua stessa opera, il suo progetto artistico, come una specie di battaglia estetica contro la dittatura della cultura statunitense contemporanea, esercitata attraverso l’intrattenimento.
Già nel 1990, nel saggio sulla televisione e sugli scrittori americani diventato celebre con il titolo E unibus pluram, aveva messo a fuoco quella che sarebbe stata la questione centrale del dibattito pubblico: la verità e l’etica della parola pubblica in un contesto trasfigurato dal linguaggio pubblicitario.
Sosterrò che l’ironia e il mettere in ridicolo sono delle valide forme di intrattenimento, ma allo stesso tempo sono le cause di un grande senso di disperazione e di stasi nella cultura americana.
Non parlava di post-verità, ma aveva presente le possibili derive dei mezzi di comunicazione. Paventava un cinismo di massa, la trasformazione dello strumento liberatorio dell’ironia in uno strumento di oppressione, di distruzione dei legami sociali e della nostra disposizione all’empatia.
Per questo, negli ultimi anni della sua vita, Wallace esplorò con più insistenza gli autori moderni, accostandosi per temi e stili da una parte alla letteratura esistenzialista – l’ultimo racconto pubblicato sul New Yorker, Good people, sembra una rilettura metafisica di Colline come elefanti bianchi di Ernest Hemingway; il suo ultimo romanzo, Il re pallido, voleva essere una grande opera intorno alla noia – e dall’altra all’impegno educativo.
È molto utile allora, a dieci anni dalla morte, dimenticare il Wallace personaggio e leggerlo come critico letterario, lettore, insegnante, filosofo. Imparare dal suo metodo di lettura, di studio, di scrittura e di didattica. E interpretare tutto il suo sforzo intellettuale – dal famoso discorso al Canyon college, Questa è l’acqua, alla lotta contro la malattia – come una pedagogia della responsabilità, necessaria per considerare la condizione umana e il proprio ruolo nel mondo con tutta la serietà possibile.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it