Nell’attesa del decreto governativo che forse disinnescherà i due quesiti referendari promossi dalla Cgil, il mondo del lavoro va avanti. Finora il dibattito politico e giornalistico si è concentrato sui voucher, lasciando in sordina il complesso mondo degli appalti, pubblici e privati.

Un settore che negli ultimi decenni ha assunto sempre maggiore rilevanza soprattutto a causa del processo di terziarizzazione dell’economia e le conseguenti esternalizzazioni di una parte consistente della produzione.

Il risultato spesso è una zona franca in cui le esigenze dei committenti di comprimere i costi e quelle degli appaltatori di generare profitto sono state scaricate sull’organizzazione del lavoro, in particolare sulle condizioni materiali dei lavoratori coinvolti, in balia del ricatto occupazionale, dovuto ai frequenti cambi di appalto, e del tentativo di appaltatori e subappaltatori di comprimere diritti e tutele.

La vicenda Almaviva
Una vicenda esemplare sugli effetti drammatici a cui possono portare i meccanismi di esternalizzazione e di appalto al massimo ribasso è quella dei 1.666 licenziati del call center di Almaviva Roma. Licenziati per aver detto no, a dicembre, attraverso le loro rappresentanze sindacali unitarie, a un prolungamento di una trattativa sindacale che li avrebbe verosimilmente portati a un accordo capestro come quello alla fine accettato dai loro colleghi napoletani, che hanno mandato giù il boccone amarissimo del taglio del costo del lavoro e del controllo a distanza. Proprio quello contro cui, nei mesi precedenti, romani e napoletani uniti avevano protestato con innumerevoli presidi e mobilitazioni.

La vicenda è l’effetto diretto della pressione concorrenziale che si esercita su una filiera frantumata come quella dei call center, in cui i diversi stabilimenti possono essere messi gli uni contro gli altri, in cui il lavoro può essere delocalizzato in paesi dove è pagato la metà, e da cui le committenze – spesso pubbliche – pretendono costi sempre più contenuti.

Il paesaggio che ne viene fuori è quello di una lotta per la sopravvivenza, che alimenta la concorrenza interna, l’arrivismo, le illusioni di potersela cavare a danno dell’altro. Uno stato di cose su cui spesso i sindacati non sono riusciti a intervenire e che in molti casi non hanno contrastato.

Per capire fino in fondo il funzionamento di questo sistema perverso, senza inoltrarci, in questa sede, in una dettagliata analisi delle vicende di Almaviva, ossia del più grande call center d’Italia, ci viene incontro una storia che ha dell’incredibile. È quella dei circa cento lavoratori esternalizzati del call center che opera per conto della Gestione servizi energetici (Gse), una società per azioni di proprietà al 100 per cento del ministero dell’economia e delle finanze.

Questa società, la Gse, ha tra i suoi obiettivi principali la pubblicizzazione e l’elargizione degli incentivi per le energie rinnovabili e, per avere contatti con l’utente, utilizza un call center in appalto.

La stessa azienda che licenziava più di 1.600 lavoratori otteneva la possibilità di assumerne un centinaio, intascando soldi pubblici

Va da sé che si tratta di un servizio essenziale per l’azienda che altrimenti non saprebbe neanche a chi e come fornire gli incentivi. L’appalto per la gestione del call center è stato concesso di volta in volta ad aziende sempre diverse, prima la Irpe, poi la FullThecnology, infine la Xenesys. I lavoratori sono rimasti però sempre gli stessi, così come la sede in cui hanno operato per la maggior parte di questi anni, che era in affitto alla Gse, che a sua volta la subaffittava agli appaltatori (già).

Risultato? Precarietà permanente per dei lavoratori formalmente a tempo indeterminato ma sempre a rischio di perdere il posto a ogni cambio appalto. Un ricatto costante che ha portato, tra le altre cose, al sottoinquadramento di questa manodopera giovane ma formata (quasi tutti laureati) che si ritrova con un secondo livello metalmeccanico. I lavoratori, pur di mantenere il loro posto di lavoro, hanno dovuto accettare condizioni stabilmente penalizzanti.

Nel frattempo però le aziende appaltatrici vincitrici di ingenti fondi pubblici concludevano un ottimo affare senza contribuire a nulla, neppure alla formazione dei lavoratori, già più che formati e con esperienza.

Caporalato tra i colletti bianchi
Una situazione che va avanti da quasi dieci anni e contro la quale, un anno fa, i lavoratori, aiutati dalla Fiom, hanno intrapreso un’azione legale proprio per “interposizione illegale di manodopera”. Le tante parole spese contro il caporalato delle nostre campagne sembrano cogliere le somiglianze con quello che imperversa in tanti altri settori e a cui a volte ricorrono le stesse istituzioni pubbliche.

Una situazione che sta per concludersi con un episodio che oscilla tra la tragedia e la farsa. Perché dopo una serie proroghe, sentenze del tar e anche l’arresto di una delle figure apicali dell’azienda prima aggiudicataria dell’ultimo bando emesso e che proprio per questo è stata alla fine esclusa, l’appalto è finito proprio ad Almaviva Roma.

Sì: la stessa azienda che licenziava più di 1.600 lavoratori contemporaneamente otteneva la possibilità di assumerne un centinaio, intascando soldi pubblici senza aggiungere quasi nulla, visto che si tratta di manodopera già formata pronta a svolgere le mansioni direttamente assegnate dal committente.

Vita facile per le aziende che gestiscono call center, un po’ meno per i lavoratori coinvolti.

I lavoratori, di fronte a questo scempio, sostenuti dalla Fiom, hanno deciso di mobilitarsi, “per spezzare”, come recita il comunicato “questa catena di appalti, che porta solamente un maggior spreco di denaro pubblico per l’Ente e un maggior ricavo per le società erogatrici del servizio, che spesso guadagnano sul taglio del costo del lavoro, aumentando quindi l’incertezza occupazionale dei lavoratori”.

La loro richiesta è semplice e chiara: internalizzazione. La stanno portando avanti a forza di scioperi e manifestazioni, come quella sotto al ministero dello sviluppo economico del 28 febbraio, il giorno in cui intanto veniva firmato l’accordo del sito di Napoli di Almaviva. Hanno trovato così anche gli ex lavoratori Almaviva di Roma a sostenerli e a denunciare insieme a loro le scandalose manovre di un’azienda che piange miseria fintanto che si tratta di imporre sacrifici ai suoi dipendenti, fino a licenziarli, e intanto si procaccia commesse e appalti.

Spostamento nei rapporti di forza
Una storia sbagliata come tante che quotidianamente vivono nel mondo degli appalti. Una testimonianza tra le altre del perché il contenuto del referendum del 28 maggio – che deve essere ancora confermato – rappresenta solo una parte delle questioni urgenti del mondo del lavoro.

Il sistema degli appalti è l’esemplificazione di ciò che avviene nel mondo del lavoro, segnato da decenni di liberalizzazioni che hanno causato uno spostamento nei rapporti di forza tra imprese e lavoratori, a netto favore delle prime.

Effetti che tuttavia incidono in modo significativo sull’intero sistema economico e sociale del paese: la terziarizzazione al ribasso di ampi pezzi del settore pubblico – dagli asili nido ai sistemi informatici, dall’accoglienza dei migranti ai call center – produce un effetto negativo non solo sui lavoratori coinvolti ma anche sulla qualità e quantità dei beni e servizi prodotti dallo stato e dalle sue diramazioni.

Dunque, la battaglia portata avanti dai lavoratori della Gse è paradigmatica per restituire dignità al lavoro, ma anche l’obiettivo proprio della funzione pubblica: mettere a disposizione dei cittadini le infrastrutture materiali e immateriali necessarie al soddisfacimento dei diritti di cittadinanza. Per questo, l’obiettivo politico non può che andare oltre il quesito referendario e realizzarsi nel riportare dentro la sfera pubblica questi servizi, eliminando il ricorso agli appalti.

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