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La fine dell’italoreggaeton?

Vyacheslav Argenberg, Getty Images

Passeggiando nelle località di mare e di provincia, si comincia a percepire qualcosa di insolito: l’inizio di un processo di smaterializzazione sonora. Si affievoliscono e spariscono lentamente i ritmi latini e plastificati a cui ci hanno abituati le ultime estati, brani euforizzati che catalizzano sentimenti di odio puro quanto di benessere infinito, amplificati soprattutto negli stabilimenti balneari e nelle macchine con i finestrini aperti.

Pezzi che hanno tradotto in franchising il reggaeton e le oscillazioni di dancehall lontani, con una concezione molto libera e spregiudicata di cosa sia una tradizione culturale, senza sufficiente coraggio e intuizioni per proporre una lingua e uno stile davvero ibridi. Canzoni che raramente hanno provato a isolare un idioma personale, fatte soprattutto di guaranà e temporali estivi, di equivoci sentimentali e dittatura dell’essere contenti.

Non mancheranno a molti, ora che le estati sono diventate più timide e frammentate e che finalmente l’italoreggaeton segue la fisiologia dei cicli brevissimi e laici dell’estate. Ma questo genere pasticciato è ostinato più di altri, e ancora ci s’imbatte in qualcuno che ne asseconda i ritmi con feroce ostinazione, aprendosi al languore dell’anacronismo. Non ci mancherà, ma con un salto in avanti tocca davvero chiedersi se l’italoreggaeton farà la stessa fine dell’eurodance, che ormai è un contenitore strapieno di ricordi e viene tenuta nella memoria anche da chi non l’ha mai ascoltata: se è vero che l’insopportabile tormentone estivo di qualcuno è sempre la torturata nostalgia di qualcun altro. u

Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale con il titolo “Addio italoreggaeton?”. Compra questo numero | Abbonati

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