Sul modo in cui bisogna o non bisogna insegnare a scuola non si trova, nei mezzi d’informazione, un dibattito ampio e approfondito quanto la serietà dell’argomento richiederebbe. E nemmeno un dibattito commisurato alle trasformazioni che l’insegnamento ha vissuto negli ultimi decenni, senza che di queste trasformazioni avessero notizia coloro che vivono al di fuori del mondo della scuola.
Personalmente, non ho le idee chiare, e diffido di chi ce le ha. Da un lato, è chiaro che non è più possibile, oggi, insegnare come si è fatto in passato, sia perché bambini e ragazzi sono cambiati immensamente, sia perché i mezzi di comunicazione hanno trasformato il modo in cui si legge, si studia, si attingono e comunicano informazioni, sia perché un’obsolescenza accelerata sembra aver travolto oggetti sino a ieri fermi, solidi, indiscutibili come il latino, le guerre d’indipendenza, Torquato Tasso. Dall’altro lato, non sono per niente convinto che di questa Grande Trasformazione si possa e si debba far carico la pedagogia che ho visto in azione durante la mia esperienza in alcune commissioni di Tirocinio formativo attivo (Tfa) per la selezioni degli insegnanti, o quella che leggo ogni tanto nelle riviste specializzate, le riviste prodotte da dipartimenti universitari nei quali – da parte di persone che, si suppone, sanno con certezza come si fa – s’insegna a insegnare. Ho sentito e letto molta aria fritta comunicabile in tre righe travestita da Teoria e diluita in cinquanta pagine; e molto gergaccio repellente, di quello dettato dalla paura, che permette a chi lo adopera di non dire mai veramente come la pensa (se pure pensa).
Io ho avuto insegnanti eccellenti che non avevano mai letto un libro di pedagogia ma che amavano il loro lavoro e amavano me (e anche quelli meno bravi di me), e tanto bastava. E ho avuto pessimi insegnanti che non sarebbero stati migliori neanche se avessero passato cent’anni a glossare Dewey. Questo però non autorizza a concludere che la lettura di Dewey (o di Freinet o di Ciari) sia inutile. L’intelligenza, la cultura, l’esperienza e l’amore per gli studenti sono tutte cose più importanti delle tecniche pedagogiche. Ma sapere bene l’italiano o la matematica non basta per insegnare bene l’italiano o la matematica; insegnare al liceo Tasso non è come insegnare in una scuola professionale; e la scuola primaria richiede competenze e attitudini diverse dalla scuola secondaria. Perciò leggere di pedagogia, riflettere sulla pedagogia e sul ruolo dell’insegnante è necessario per chiunque lavori nella scuola o sia interessato alla scuola.
Per questo vorrei consigliare a tutti di leggere la rivista Gli asini. Si tratta di uno spin-off di un’altra bella rivista, Lo straniero diretta da Goffredo Fofi. Chi in quella rivista si occupava di scuola e di educazione si è, diciamo, messo in proprio, e ha realizzato questo bimestrale, che ha anche un’ottima e gratuita versione online. Le due anime della rivista sono indicate nel sottotitolo, “educazione e intervento sociale”: si parla di scuola ma si parla anche di politiche sociali e di terzo settore.
Da che parte sta, la rivista Gli asini? Da nessuna parte, in realtà: nel senso che non c’è una linea sulla quale tutti i contributori convergano, e perciò si trovano articoli che suonano conservatori: “Per certi versi mi sento gentiliano: i contenuti che alla fine del ciclo elementare dovrebbero essere raggiunti, a mio avviso, sono leggere, scrivere e far di conto. Il punto è: dentro il leggere, lo scrivere e il far di conto cosa ci mettiamo? Per quanto mi riguarda ‘fare italiano’ significa confrontarsi con testi veri. Con la vera letteratura, scelta ovviamente in relazione al momento di sviluppo psicologico del bambino” (Alberto Delpero, “Il mestiere di maestro”); e si trovano articoli che suonano rivoluzionari: “Fare sport, giocare anche se si sentono grandi, andare a camminare e sudare sono cose importantissime. Smontare gli stereotipi, essere non conformi, anche a scuola presentarsi come adulti non conformi vale educativamente più di molte parole. Fargli produrre artefatti in continuazione e vedere un sacco di buon cinema. La parola sì ma anche tutto il resto” (Federica Lucchesini, “Le parole non bastano”). Ma ho scritto “suonano” a ragion veduta, perché uno dei meriti di chi dirige la rivista è aver capito che il pensiero bipolare, affezionato a etichette come conservatore vs. progressista, è un pensiero sciocco, soprattutto quando si parla di scuola.
Le battaglie ideologiche non servono a niente. L’unica battaglia che mi pare unifichi buona parte dei contributi pubblicati da Gli asini è quella contro la trasformazione della scuola in una specie di apparato post-fordista gestito da burocrati e da pedagogisti con manie di grandezza. Non so se stia davvero succedendo questo, nelle scuole (mi pare che ogni tanto si sottovaluti la capacità di resilienza dei bravi insegnanti), e non so se risposte adeguate possano venire dai vecchi saggi che Gli asini ama glossare e ripubblicare: Macdonald, Illich, Goodman nonché, purtroppo, Baudrillard. Ma intanto è bene che entrino in circolo delle idee intelligenti e ben argomentate, e in un paese in cui mancano quasi del tutto riviste culturali degne di questo nome mi pare che Gli asini sia uno dei pochi luoghi in cui questa circolazione avvenga davvero.
I due ultimi numeri contengono una quantità sorprendente di contributi interessanti, anche al di fuori della sfera dell’istruzione: “Il voto dei giovani” di Alessandro Leogrande è, per esempio, tra le cose migliori che ho letto sul Movimento 5 stelle; e raramente ho trovato tanta intelligenza e tanta concretezza come nel saggio di Giovanni Zoppoli su “Gli operatori sociali dentro la crisi”. Quanto alla scuola, per farsi un’idea non c’è che da pescare nel sito della rivista, magari partendo dallo splendido “Tra peluche e cinismo” di Giuseppe Montesano. Dopodiché si può contribuire abbonandosi alla rivista, cinquanta euro per sei numeri annui: pochi soldi molto ben spesi.
(È uscito il numero 18, dedicato a Valutazione e meritocrazia, ed è pieno di interventi molto sensati, a proposito di un tema che di solito sollecita insensatezze)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it