Non sono un appassionato degli articoli del genere “come sarà il nuovo anno”, perché di solito faticano a spiegare in che modo i mesi che ci aspettano dovrebbero essere tanto diversi da quelli che abbiamo appena vissuto. Ma quando il passaggio di anno coincide con un cambio così drastico alla guida degli Stati Uniti – Donald Trump si insedierà alla Casa Bianca al posto di Joe Biden il 20 gennaio 2025 – ha senso aspettarsi qualche stravolgimento e ragionare sulle possibili conseguenze. Provo a farlo qui immaginando le domande che potremmo sentire più spesso nel 2025. Il punto non è tanto prevedere cosa succederà ma riconoscere le linee di frattura che potrebbero causare i cambiamenti più importanti, negli Stati Uniti e, per riflesso, a casa nostra e nel resto del mondo.

Quali saranno le priorità del nuovo presidente?

Trump si trova in una posizione non così comune nella storia dei presidenti statunitensi: il suo partito ha la maggioranza sia al senato sia alla camera dei rappresentanti, e questo gli dà, com’era successo già durante il suo primo mandato, la possibilità di portare avanti un’agenda legislativa ambiziosa invece che limitarsi a usare i poteri dell’autorità esecutiva.

Allo stesso tempo, bisogna considerare che il margine di manovra dei presidenti appena insediati non è infinito. Anche loro devono fare i conti con gli scontri nella maggioranza – ce ne sono stati già in questi giorni, ancora prima che Trump entri in carica – e con il fatto che le risorse dello stato non sono illimitate. Di conseguenza i presidenti a inizio mandato possono puntare a far passare uno o al massimo due grandi provvedimenti. Nel 2017 Trump sprecò gran parte del suo capitale politico nel tentativo (inutile) di abrogare l’Affordable care act, la riforma sanitaria approvata dal congresso durante il mandato di Barack Obama. Alla fine riuscì a far passare un grande taglio alle tasse, noto come Tcja, di cui hanno beneficiato molto le famiglie ricche e in misura minore quelle della classe media, e che è stato di fatto l’unico provvedimento importante approvato dai repubblicani del congresso in quei quattro anni.

13 luglio 2024: un uomo appostato con un fucile su un tetto cerca di uccidere Trump durante un comizio a Butler, in Pennsylvania. (Evan Vucci, Ap/LaPresse)

Molte delle disposizioni di quella legge scadranno alla fine del 2025 e Trump non vuole che le tasse aumentino sotto il suo governo, quindi è molto probabile che la sua priorità sarà rinnovare i tagli fiscali. In campagna elettorale ha promesso una serie di agevolazioni che, se attuate, costerebbero complessivamente circa quattromila miliardi nei prossimi dieci anni. Gli scontri di questi giorni fra Trump e i repubblicani al congresso dipendono in buona parte dal fatto che il presidente eletto vuole eliminare il tetto del debito – la quantità di soldi che il governo può prendere in prestito per finanziare le sue attività, e che deve essere autorizzata periodicamente dal congresso – per poter avere mano libera sui suoi progetti, a cominciare dal taglio delle tasse.

Ma resta il fatto che da qualche parte bisognerà andare a recuperare quei soldi. Trump potrebbe cercare di tagliare la spesa per l’energia pulita, fortemente voluta da Biden e dai democratici, ma in questo modo rischia di colpire maggiormente proprio gli stati governati dai repubblicani, che stanno beneficiando di più delle politiche legate alla transizione energetica. Alcuni temono che i repubblicani possano fare cassa tagliando la sanità pubblica (in particolare sul Medicaid, l’assistenza per le famiglie a basso reddito) e l’istruzione pubblica, provvedimenti che sarebbero devastanti per gli abitanti delle zone rurali, che hanno votato in massa per Trump. Il presidente eletto ha anche detto che i tagli fiscali saranno finanziati dai dazi contro la Cina e altri paesi, un’affermazione che per gli economisti non ha molto senso, visto che alla fine l’aumento dei costi causato dai dazi sarebbe pagato in buona parte dai consumatori statunitensi. Sarebbe come mettere i soldi nella tasca sinistra dei contribuenti per poi toglierli dalla destra, ha detto l’economista Joseph Rosenberg.

Trump manterrà le promesse sull’immigrazione?

La risposta è molto legata a quello che dicevamo poco fa, cioè alla quantità di risorse economiche e politiche disponibili e a come Trump deciderà di usarle. In campagna elettorale ha promesso di attuare “il più grande piano di espulsioni di immigrati irregolari della storia del paese”. Un programma del genere avrebbe bisogno di un enorme stanziamento da parte del congresso, si scontrerebbe con una forte resistenza dell’opinione pubblica e di molti repubblicani (per via degli effetti negativi sull’economia) e sarebbe probabilmente bloccato dai tribunali. È improbabile che Trump decida di entrare in questo pantano, ma ci sono tante cose che può fare per cambiare la rotta del sistema migratorio rispetto a Biden, accusato, anche a sinistra, di non aver fatto abbastanza per controllare i flussi migratori in questi anni.

Scrive l’Economist: “Come nel primo mandato, Trump potrebbe limitare la durata di validità di un visto e rendere più difficile ottenerlo aumentando i controlli, le tasse e i tempi di attesa. Crollerebbe di nuovo il numero di persone che ottengono visti permanenti. Il presidente ha anche il potere di stabilire il numero di rifugiati accettati ogni anno. Per i prossimi quattro anni, ci si aspetta che questo numero sia molto basso. Al confine, Trump potrebbe riavviare la sua politica che imponeva ai migranti di aspettare in Messico mentre la loro richiesta viene esaminata dai tribunali statunitensi. Ha promesso di eliminare un programma governativo che consente ai migranti di prendere appuntamento con le autorità statunitensi per presentare richiesta d’asilo”. Altre cose sfuggiranno al controllo di Trump. Le sue politiche più controverse saranno contestate nei tribunali. Se l’economia statunitense rallenterà, calerà il numero di persone in cerca di lavoro che provano a entrare negli Stati Uniti. Se il Venezuela sprofonderà definitivamente nel caos, dopo l’insediamento di Nicolás Maduro a gennaio, un maggior numero di migranti potrebbe riversarsi a nord.

Trump con la moglie Melania a West Palm Beach, in Florida, il 6 novembre 2024. (Brian Snyder, Reuters/Contrasto)

È la fine degli sforzi degli Stati Uniti sul clima?

Si può immaginare che Trump manterrà alcune delle promesse fatte in campagna elettorale, come ritirare di nuovo gli Stati Uniti dagli accordi internazionali per la riduzione delle emissioni, trivellare di più e proteggere meno l’ambiente. Il nuovo corso lancerà un messaggio importante al resto del mondo, minando ulteriormente gli sforzi globali contro la crisi climatica, farà crescere le emissioni del paese e l’inquinamento e probabilmente causerà una riduzione degli investimenti nelle energie rinnovabili negli Stati Uniti. Ma difficilmente gli Stati Uniti invertiranno una rotta che sembra ormai tracciata.

Anche su questo emergerà una distanza tra quello che Trump vorrebbe fare istintivamente e quello che gli conviene fare politicamente. Provare a cancellare l’Inflation reduction act, la legge da centinaia di miliardi di dollari voluta da Biden per accelerare la transizione energetica, vorrebbe dire darsi la zappa sui piedi sul fronte interno, visto che come dicevamo prima gli incentivi previsti dalla legge confluiscono soprattutto nei distretti repubblicani, e in politica estera, perché le possibilità degli Stati Uniti di competere con la Cina dipendono in buona parte dalla capacità di tenere il passo sulle tecnologie del futuro come le auto elettriche.

Bisogna anche considerare che le politiche energetiche sono determinate solo in parte dalle decisioni dei governi. Pesano di più gli andamenti del mercato, condizionati dalle decisioni dei paesi dell’Opec, per esempio, e gli effetti di crisi improvvise come la guerra in Ucraina. Biden è stato il presidente che ha fatto di più per contrastare gli effetti della crisi climatica, e allo stesso tempo durante il suo mandato gli Stati Uniti sono diventati il principale produttore mondiale di gas e petrolio.

Sarà il governo dei miliardari?

Nel 2025 si parlerà molto del peso e del potere di Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, nell’amministrazione di Trump. Come in ogni aspetto della politica trumpiana, anche in questo caso vedremo emergere i segnali contraddittori. Lo scontro di questi giorni nel Partito repubblicano per approvare la legge di bilancio ci dà delle prime interessanti indicazioni. Qui serve una breve ricostruzione.

Martedì lo speaker repubblicano della camera, Mike Johnson, ha trovato un accordo con i democratici per finanziare le attività del governo ed evitare il cosiddetto shutdown, la chiusura parziale delle attività federali. A quel punto Musk si è scagliato contro l’accordo, pubblicando più di 150 post su X, il suo social network, in cui diceva che la legge era piena di spese inutili volute dai democratici, la definiva “criminale” e minacciava i parlamentari: “Ogni membro della camera o del senato che vota a favore di questa oltraggiosa legge merita di essere cacciato alle elezioni tra due anni!”. Trump e il vicepresidente eletto Vance si sono accodati, Johnson ha ritirato la proposta e giovedì si è presentato alla camera con un nuovo progetto sponsorizzato da Musk e da Trump, che prevedeva anche la sospensione del tetto del debito; è andata male, il provvedimento è stato bocciato con il voto decisivo di molti deputati repubblicani.

Il tempo stringeva – bisognava trovare un accordo entro la sera di venerdì per evitare lo shutdown – e Johnson non sapeva più che pesci pigliare, tanto che si parla di una sua sostituzione a inizio anno, quando si insedierà il nuovo congresso. Alla fine è riuscito a rimettere insieme i cocci e si è presentato alla camera con un altro provvedimento che era una via di mezzo tra i due precedenti e che è passato anche grazie al voto dei deputati democratici (non menziona il tetto del debito).

Un caos del genere nel partito che ha appena stravinto le elezioni, e prima ancora che il nuovo presidente entri in carica, ci dice che l’influenza di Musk potrebbe danneggiare politicamente Trump, infastidendo i repubblicani e complicando i rapporti tra Casa Bianca e congresso. Ma fa capire anche quanto gli equilibri istituzionali rischiano di essere sbilanciati dal peso dei miliardari. Non c’è solo Musk: finora Trump ha nominato in ruoli chiave della sua amministrazione almeno 13 persone con ricchezze superiori al miliardo di dollari. Il peso dei miliardari nella politica statunitense non è una novità, ma oggi queste persone non sono più nell’ombra e reclamano spudoratamente il diritto di condizionare la politica, anche fuori dagli Stati Uniti: esprimendo sostegno ai partiti di estrema destra di vari paesi, tra cui Regno Unito e Germania, Musk sembra immaginare una rete radicale internazionale. Una specie di Steve Bannon ma con 300 miliardi di dollari in tasca.

Il mondo sarà più o meno pericoloso con Trump?

L’approccio alla politica estera di Trump non sembra essere cambiato molto rispetto al primo mandato. Volendo riassumere, è definito da tre elementi principali: la convinzione che gli altri paesi, soprattutto gli alleati storici, stiano fregando gli Stati Uniti (da qui l’ossessione per i deficit commerciali, per i dazi e per le spese della Nato); il desiderio di avere il più possibile le mani libere, che lo porta a disprezzare le alleanze e a preferire intese su singole questioni; l’attrazione per gli autocrati e la predisposizione naturale a fare accordi con loro. Il mondo però è cambiato molto nel frattempo: si sono aperte altre crisi e soprattutto queste crisi si sono inserite un po’ alla volta in un nuovo riallineamento geopolitico, in cui cresce il fronte dei paesi che si oppongono all’influenza statunitense, e in generale aumenta la conflittualità. Come si inserisce in questo contesto un uomo lunatico, che peraltro sarà circondato e consigliato da persone con idee molto varie sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo?

Trump ripete da tempo che il mondo sarebbe in pace se alla Casa Bianca ci fosse stato lui al posto di Biden, e ha promesso di risolvere le principali crisi internazionali subito dopo il suo insediamento. La verità è che sono gli eventi a definire le politiche estere e non il contrario. Questo vale per gran parte dei presidenti statunitensi del passato, ed è vero a maggior ragione in un periodo storico in cui Washington ha in generale meno potere di condizionare il comportamento di altri paesi.

Gli sviluppi degli ultimi mesi su alcuni fronti potrebbero aiutare Trump a ottenere, o almeno a rivendicare, dei risultati. Le crescenti difficoltà dell’economia russa, unite allo stallo militare in Ucraina, potrebbero spingere Vladimir Putin a cercare una via d’uscita dal conflitto. Anche l’Iran, ridimensionato dall’offensiva israeliana nella regione e dalla caduta del regime di Assad in Siria, potrebbe cercare un accordo. Il disgelo dei rapporti con la Russia potrebbe ammorbidire la posizione della Corea del Nord.

Ma gli eventi potrebbero anche mettere a nudo le contraddizioni della politica estera di Trump. Come reagirebbe se la Russia dovesse approfittare della distrazione della comunità internazionale dopo un cessate il fuoco per conquistare altri grandi pezzi di territorio ucraino? O se la Cina dovesse aumentare la sua pressione su Taiwan, anche per via della retorica più dura di Trump o di una guerra commerciale contro Pechino? O se la transizione in Siria dovesse andare male e il paese finisse per essere una nuova Libia? O se l’Iran dovesse alla fine diventare una potenza nucleare? O quando semplicemente scoppierà una crisi che ancora non si può prevedere? Ha scritto James M. Lindsay sul Council on foreign relations: “Sostenere una politica di non intervento e al contempo promettere di intervenire duramente contro gli avversari funziona in campagna elettorale ma non funzionerà alla Casa Bianca. Trump si è vantato a lungo di essere bravissimo a fare accordi. La politica estera che sta ereditando metterà sicuramente alla prova questa affermazione”.

Sullo sfondo di ogni conversazione sull’instabilità internazionale ci sarà la questione delle armi nucleari. Le mosse di Trump durante il primo mandato potrebbero dare qualche indicazione sul futuro. Trump provò a convincere la Corea del Nord ad abbandonare il suo programma atomico con un misto di minacce (disse che avrebbe scatenato contro quel paese “una potenza di fuoco e una furia mai viste nella storia del mondo”) e maldestri negoziati: non funzionò. Si oppose alla proposta di estendere il New start, il Trattato sulla riduzione delle armi strategiche stipulato con la Russia, sostenendo che avrebbe dovuto essere allargato anche alla Cina, ma Pechino rispedì la proposta al mittente, e nel frattempo ha continuato ad ampliare il suo arsenale. Quanto all’Iran, Trump ritirò gli Stati Uniti dall’accordo sul controllo del programma nucleare iraniano voluto da Barack Obama, cosa che ha portato il regime di Teheran a riprendere i suoi piani e ad avere un comportamento sempre più ostile nella regione.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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