Da quanti anni non entravo in un posto in cui tutti credono in Dio?

Più di un quarto di secolo fa ho smesso di andare a catechismo, dall’atroce suor Romana e dall’adorabile don Stefano, e ho anche smesso di andare in chiesa, dove mia madre mi scortava con simulata convinzione una o due domeniche al mese. Nessuna crisi improvvisa. Qualcuno ricorda, se non proprio il giorno, il periodo della sua vita in cui ha smesso di credere in Dio, la folgorazione al contrario. Io non ricordo di averci mai creduto. Andavo dove mi dicevano di andare, facevo quello che facevano tutti i miei compagni di scuola, non davo nessuna importanza alla cosa. E come me quasi tutti gli altri. Più che non credere, non ci ponevamo seriamente il problema: c’era la breve tortura del catechismo, il venerdì pomeriggio, c’era la chiesa, la domenica mattina, ma l’uno e l’altra erano pieni di atei che non trovavano nessuna contraddizione tra il loro ateismo e la dottrina, o la messa. Così è probabile che il meeting di Comunione e liberazione a Rimini sia stato, dopotutto, il primo e unico luogo da me visitato in cui tutti, nessuno escluso, credevano in Dio.

Questa unanimità – specie se uno non è tra gli unanimi – si avverte.

Il meeting di Cl dura una settimana, l’ultima di agosto, ma se dipendesse dalla dedizione di chi lo organizza potrebbe durarne cinquantadue. In albergo faccio colazione insieme a due dei cuochi del ristorante trentino, uno dei cinque o sei ristoranti regionali (Cl Trentino, Cl Sardegna, eccetera) che si possono trovare al meeting. Lavorano dalle otto del mattino a mezzanotte, gratis, e lavorare significa svegliarsi alle sei e mezza, essere al palasport alle otto in punto, aiutare a scaricare le casse di carne verdura frutta che sono arrivate direttamente dal Trentino – “solo prodotti freschi, solo prodotti nostri” – e cominciare a cucinare, e cucinare tutto il giorno per centinaia di persone, e smettere soltanto dopo cena, a stand-ristorante chiuso, perché i cuochi devono anche aiutare a rimettere tutto a posto.

Cioè, non devono, tecnicamente, nessuno qui deve fare qualcosa, tecnicamente: ma lo fanno. Sara, la conoscente di conoscenti che mi ha fatto avere il pass per il meeting, e che è responsabile della sala vip dello stesso ristorante (sì, c’è una sala vip), lavora anche lei dalla mattina alla sera gratis, e in più si paga le spese di soggiorno a Rimini. E direi che questa è la regola per quasi tutti: i volontari sono volontari veri, come una volta alla festa dell’Unità, un vortice di volontari che approvvigionano, cucinano, apparecchiano, sparecchiano, puliscono, servono in tavola una scelta di sei menù, tutti abbordabilissimi, 12-22 euro, tutti perfettamente spiegati, con foto, nel pieghevole che si riceve all’entrata. Forse soltanto i nomi dei piatti sono un po’ leziosi, forse stonano un po’ in tanta ascesi Lo stinco di maialino da latte con la salsiccia arrostita, o La polenta di Storo e lo strudel di pasta fillo alle verdure, o Le casarecce al ragù di selvaggina con scaglie di Trentingrana, o – giuro – Le sottilissime di trota al fil di fumo dolce.

Sono lì lì per scandalizzarmi ma poi mi rendo conto che sarebbe ingiusto voler sentire in questa retorica da Gambero Rosso qualcosa di non veramente cristiano. Che cos’è che non andrebbe – questo grand-guignol di salsicce e stinchi di maialini da latte? O questo matrimonio tra fede e godimento celebrato con le parole del godimento, gli articoli davanti ai nomi delle pietanze, “un servizio attento e cordiale, l’esclusiva cucina dello chef Lorenzo Chillon, una nuova sala lounge con originali proposte di aperitivi ed uno speciale menù dedicato ai più piccoli” (pubblicità del caffè Pedrocchi, che “riapre le sue porte al Meeting di Rimini”)? In un posto dove in una settimana passa e mangia mezzo milione di persone l’unico modo per fare le cose è farle bene, e le parole quelle sono. Pacificato, opto per il Menù della Certezza, comprendente sformatino di zucchine su misticanza all’aceto balsamico, garganelli con pesto saporito di rucola e pomodorino cherry disidratato al sole, tenerezza di vitello con caponatina agrodolce, panna cotta al pepe lungo con coulis alla pesca, acqua, caffè, tutto per la miseria di quindici euro e cinquanta.

Uno può dire che tutta questa dedizione, tutto questo idealismo al servizio della causa ha un secondo fine, anche se non si vede. “Sì”, mi dice un amico cinico mentre io gli descrivo le meraviglie di questa organizzazione su base volontaria, “ma tutti questi qui poi trovano lavoro con la Compagnia delle Opere, nel parastato, nei comuni, nelle province, nelle regioni amministrate da gente di Cl. E comunque le aziende, i ristoranti, si fanno un mucchio di pubblicità”. E probabilmente è così, sicuramente è così in un mucchio di casi. Ma quelli che ho incontrato io, soprattutto i giovani, mi sembravano davvero disinteressati. Che poi ci sia un interesse anche nel disinteresse, un calcolo insomma, magari non portato a coscienza, anche in questo sacrificio, beh, sì, senz’altro: non c’è atto che non sia impuro. Ma non succede lo stesso in qualsiasi altro gruppo umano organizzato, specie se politico o para-politico? Bourdieu ci ha scritto sopra una biblioteca. Ma anche tenendo conto di tutte le obiezioni, di tutti i distinguo, l’impressione è forte: una gioiosa macchina da guerra, come il Pds del 1994 secondo Occhetto, quello polverizzato da Berlusconi. Per tutto il tempo mi sono rigirato in testa un verso di Fortini, “Ho detto grande il mondo, invincibili gli uomini”. Solo che Fortini parlava della Cina di Mao.

E in effetti in tutto quello che mi vedo attorno tra il 25 e il 28 agosto del 2008 c’è molto di simile alla prassi e alla retorica della vecchia sinistra, salvo che qui decisamente non siamo a sinistra. “Avete le forze e i numeri per fare una rivoluzione”, dico scherzando a un conoscente di conoscenti di Cl che incontro nello stand della mostra su Leopardi. “L’abbiamo già fatta”, mi risponde serafico, ed è una bella risposta, che io non ho cuore di sciupare con una richiesta di spiegazione: la rivoluzione cristiana, duemila anni fa? La rivoluzione cristiana di don Giussani? Il certamente rivoluzionario governo Berlusconi? Tutte e tre, probabilmente.

Qualche numero. 115mila metri quadrati allestiti, 13.500 metri quadrati di ristoranti, fast food, bar, 5.000 metri quadrati per i bambini, 500 relatori, 150 tavole rotonde, 800 giornalisti accreditati. Un giornalaio interno, un teatro, un cinema, una ventina fra sale, salette, spazi per mostre, e un’aula magna grande come mezzo campo di calcio. Totale visitatori, 700mila. Dati ufficiali, ma a occhio e croce non è come nei cortei di partiti: forse meno di 700mila, ma non molto meno, con prevalenza di giovani e giovani famiglie con bambini. È un fiume, una marea e – è la prima cosa che vi colpirà entrando al meeting, passeggiando tra gli stand, ascoltando le chiacchiere al bar – sono tutti molto allegri, tutti veramente contenti di essere qui.

Il meeting, dice il pieghevole che raccolgo all’ingresso “è un grande evento sociale, una festa, un luogo dove si celebra la gloria terrena di un Dio creatore e amico”. Questa gioia, questa euforia adolescenziale anche in chi adolescente non è più non si vede nei servizi televisivi, bisogna venire a Rimini per respirarla: ed è proprio così, come se “celebrare la gloria terrena di un Dio creatore e amico” non fosse un’iperbole ma la piana descrizione di quello che tutti, qui, stanno facendo: sono venuti alla festa di un loro amico che, per inciso, è anche il creatore del cielo e della terra. Come non essere euforici? Per non esserlo, bisogna non essere nella lista degli amici. Ed è per questo che, se siete atei, l’ebbrezza circostante vi contagerà, sì, ma solo dopo aver cambiato di segno trasformandosi in malinconia o, più precisamente, in magone: non è la vostra festa.

Per vendetta, ho speso metà del mio tempo a cercare in mezzo agli stand delle occasioni di raccapriccio e indignazione, cose assurde e ridicole da raccontare agli amici al mio ritorno, ma devo dire che alla fine non ho trovato granché. Non c’è niente di strano se in una festa di cattolici ci sono gruppi ultracattolici come quelli del Metodo Sintotermico Rötzer. “L’alternativa esiste!”: nove weekend sgranati su due anni durante i quali docenti qualificati “insegnano le basi biologiche, psico-sessuologiche ed etico-antropologiche della regolazione naturale della fertilità (Rnf)”, in un cammino che “passa attraverso l’auto-esperienza e l’educazione ad una concezione della procreazione responsabile in accordo con il Magistero della Chiesa”.

E non c’è niente da ridere se lo stand del Movimento per la vita è sovrastato dalla scritta “Una risposta a tutte le tue domande”: se uno pensa di avere tutte le risposte lo dice, le dà. E davanti allo stand del Pio Albergo Trivulzio bisogna aver almeno passato i trent’anni per sorridere, per ricordarsi di Mario Chiesa e del Pio Albergo Trivulzio, di Mani pulite e di tutto il resto. E sarebbe assurdo eccepire sulla vicinanza tra sacro e profano, lo stand dei salumi Vismara dietro lo stand Vita e opere di don Bosco, o sulla virata verso il commerciale degli stand più periferici: Smart Sweeper la scopa rotante, i dolcetti siciliani, le forbici a cricchetto per tranciare il pollo e i surgelati, la Tobacco British che vende sigarette ma devolve parte dei guadagni alla lotta contro il cancro ai polmoni, Morellato quello dei gioielli, lo stand Honda con un pilota giapponese che firma le sue fotografie. È un gigantesco passaggio di gente, una gigantesca opportunità: le aziende pagano e sistemano il loro stand, come si fa in ogni fiera. In confronto all’atroce bazar che è diventata, mettiamo, la festa dell’Unità di Firenze, qui sembra di essere a Ginevra ai tempi di Calvino.

Queste sono le prime pagine del saggio “Anything Goes. Il meeting di Comunione e liberazione a Rimini”, compreso in una raccolta dal titolo Una sterminata domenica: saggi sul paese che amo*, appena uscita per Il Mulino. Gli altri undici saggi parlano di Radio Deejay, della copertura mediatica dell’eruzione dell’Eyjafjallajökull, degli scrittori italiani alla Fiera del Libro di Guadalajara, di Panarea, di Fantozzi, degli Elio e le Storie Tese, di Matteo Renzi, di Luciano Moggi, delle biblioteche italiane, del cestista Bob Morse e della tv degli anni ottanta.*

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