I Pet Shop Boys: disco, pop e politica al Covent Garden
Difficile spiegare che tipo di spettacolo fosse Inner Sanctum, lo show che i Pet Shop Boys hanno portato in scena per quattro sere di seguito alla Royal Opera House di Londra, uno dei teatri lirici più importanti del mondo. Era un evento pop per famiglie (l’età media del pubblico si aggirava intorno ai 45 anni e molti si sono portati dietro i figli), a metà strada tra un rave e il concerto di Capodanno. Era sicuramente una festa per celebrare la carriera ultratrentennale di un duo synth pop che ha costruito mattone dopo mattone, successo dopo successo, un monumentale manuale di cosa sia oggi la pop music.
Dovessero scomparire dalla faccia della terra tutti i dischi pop del mondo, un greatest hits dei pet Shop Boys sarebbe un ottima fonte di materiale per ricominciare tutto da capo. Inner Sanctum però era anche l’apice di un lavoro creativo sempre in bilico tra divertimento popolare e metaintrattenimento un po’ snob. Portare la loro “disco”, come l’hanno sempre chiamata loro stessi quando il termine era in disgrazia e puzzava di camicette sintetiche in naftalina, in un tempio della lirica come il Covent Garden, era un’occasione troppo ghiotta. Inner Sanctum diventa dunque una celebrazione della “disco” dei Pet Shop Boys ma anche e soprattutto della loro inglesità. Del loro essere ormai un’istituzione.
Mescolare alto e basso, popolare e colto, è sempre stata una caratteristica molto inglese. C’era stata la Beggar’s Opera che nel settecento portava al pubblico aristocratico dell’opera italiana un esaltante teatro musicale fatto di canzonacce popolari e ambientazioni volgari. E poi varie forme di burlesque più o meno colto, fino all’esplosione di quel fenomeno unicamente britannico che è stata l’operetta di Gilbert & Sullivan. La musica e l’estetica dei Pet Shop Boys sono la naturale continuazione di questa tendenza tipica di una società ossessionata dalle classi sociali: le loro hit estive citano Che Guevara e Debussy (Left to my own devices), campionano Henry Purcell e scomodano Karl Marx (Love is a burgeois construct). Le loro sono “solo canzonette” che parlano di Šostakovič e Stalin (My october symphony), di piccoli drammi di borghesia bisessuale parafrasando il romanziere vittoriano Anthony Trollope (Can you forgive her) e che mettono in scena metafore dell’aids da far impallidire Susan Sontag (Domino dancing e Being boring).
E quando si tratta di fare una cover, i Pet Shop Boys non si sono mai tirati indietro: hanno avuto un numero uno in classifica nel 1987 con Always on my mind, resa famosa da Elvis Presley, e poi ci hanno preso gusto. Hanno mescolato le carte cantando pezzi degli U2 (Where the streets have no name), dei Coldplay (Viva la vida), dei Village People (Go west) e dei Madness (My girl). Hanno fatto Brecht (ovvio) proponendo come b-side del singolo Can you forgive her (già parecchio concettuale di suo) una cover di What keeps mankind alive dall’Opera da tre soldi. Hanno aggiornato Je t’aime… moi non plus di Serge Gainsbourg all’epoca del cybersesso e hanno trasformato The last to die di Bruce Springsteen trasformandola in una spietata hit eurodance intrisa di catastrofismo post-neoliberista.
Come c’era da aspettarsi Inner Sanctum è stato uno show tanto divertente quanto concettuale. Le canzoni si susseguivano come in un megamix da discoteca e dei raffinati giochi di luce segnavano il passaggio tra un atto e l’altro. E Neil Tennant e Chris Lowe, sempre sul palco, sempre statici, con quell’aria tra il preside severo e la zia un po’ matta, mettevano in scena il loro teatrino del sesso, delle classi sociali, delle ingiustizie e dell’amore in un’epoca di disfacimento del capitalismo e delle frontiere tra i sessi. Sembra strano dire che il pop dei Pet Shop Boys sia politico. Ma lo è eccome. La electrocumbia di Twentyomething parla delle delusioni di una generazione ingannata dal miraggio delle startup, The Dictator decides suona particolarmente attuale con quello che sta succedendo nella Turchia di Erdoğan e Domino dancing ci ricorda che ci sono paesi in cui l’aids continua a “farli cadere uno dietro l’altro, come i pezzi di un domino”.
Comunque si balla sempre. E i Pet Shop Boys ti lasciano piena libertà di lettura del loro lavoro. Puoi cantare a squarciagola “Che Guevara and Debussy to a disco beat” senza sapere chi siano l’uno o l’altro, puoi continuare a pensare che West end girls sia la canzone del tuo primo bacio e che Go west sia quello che è: un fantastico riempipista da dj per matrimoni.
E poi c’è la questione dell’omosessualità dei Pet Shop Boys, che per diversi fan e critici eterosessuali (soprattutto italiani) è ancora una specie di elefante nella stanza. L’unica cosa che c’è da sapere sull’argomento è che Neil Tennant ha fatto il suo coming out pubblico nel 1994. Era il segreto di Pulcinella perché i Pet Shop Boys hanno sempre usato elementi musicali, linguistici e iconografici tipici delle sottoculture gay. Derek Jarman ha curato le proiezioni video del loro primo tour, nel 1989, e non ci è andato piano tra orge grecoromane, toreri e truzzi pasolininani a torso nudo. In Literally di Chris Heath, la loro prima biografia ufficiale, si parla apertamente di come i fan giapponesi, già nel 1985, mandassero disegni che ritraevano Neil vestito da sposa e Chris da sposo.
Tutti, gli ex giovani gay degli anni ottanta, i loro figli e le famiglie più o meno allargate, sono tornati a casa contenti
I Pet Shop Boys hanno sempre giocato con la loro gayezza in modi più o meno sottili, anche molto prima del doveroso coming out di Neil Tennant. Gli elementi gay usati dai Pet Shop Boys sono parte integrante della loro estetica così tipicamente britannica. Gli indizi, i riferimenti che gli etero non possono o non vogliono cogliere, sono una caretteristica di tanta cultura pop inglese, da Gilbert & Sullivan dritti fino a Queer as folk. Questo senso di camp, di consapevole utilizzo di certi linguaggi in chiave ironica, ha sempre permeato l’intrattenimento popolare, dai recital operistici en travesti ultracolti di Neil Aspinall fino alle “two ladies” di Little Britain.
In questo senso i Pet Shop Boys, insieme forse a Morrissey, sono gli ultimi artisti britannici a permeare la loro arte del ricordo lontano del palare, lo slang segreto con cui gli omosessuali britannici comunicavano tra loro quando la sodomia era un reato penale. Il palare (traslitterazione volutamente sbagliata dell’italiano “parlare”) era una lingua segreta, piena di riferimenti al teatro, alle canzoni e alle arti. Era un modo per parlare di sesso tra maschi senza che la società vittoriana capisse. La gayezza sfrontata che spesso compare in filigrana nel pop ultra commerciale dei Pet Shop Boys ha proprio questo sapore un po’ fané, di linguaggio cifrato. Ed era un livello di lettura che i giovani gay degli anni ottanta capivano eccome: sia in Gran Bretagna sia in Italia e in qualunque altro posto.
Inner Sanctum è finito come una festa di carnevale. Con una Always on my mind rimessa a nuovo dal produttore Stuart Price che ne ha fatto un lungo workout techno. Dietro a Neil e Chris una trentina di ballerini con enormi tute gonfiabili colorate si muovono con la grazia degli ippopotami della Danza delle ore di Fantasia. E tutti, gli ex giovani gay degli anni ottanta, i loro figli, i figli delle loro amiche con la loro pinta in mano (si potevano portare alcolici in teatro) e le famiglie più o meno allargate, sono tornati a casa contenti. E un po’ orgogliosi di questo loro tesoro nazionale.