×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La parabola vittoriana di George Michael

George Michael alla Royal Opera House di Londra, l’11 maggio 2011. (Stefan Wermuth, Reuters/Contrasto)

C’erano una volta i primi anni ottanta. Il Regno Unito era un paese allo stremo, schiacciato dalle privatizzazioni selvagge di Margaret Thatcher e dagli scioperi, ultima spiaggia di una classe operaia agonizzante.

Eppure in quegli anni grigi il pop inglese più disimpegnato, colorato e teen era in stato di grazia. Duran Duran, Spandau Ballet e Culture Club dominavano il mercato e influenzavano i gusti estetici, musicali e sessuali di una generazione. Gli Wham! tra il 1983 e il 1985 sono stati i migliori di tutti. I più sgargianti, i più sorridenti, i più pop. A cominciare dal nome che sembrava schizzato fuori da un dipinto di Roy Lichtentstein.

Gli Wham! erano essenzialmente George Michael, un giovane cantante di origine greca che sembrava nato già famoso. Un sorriso bianchissimo, un fisico atletico ed eternamente abbronzato, capelli baciati da méches che lo facevano sembrare appena tornato da una giornata in barca. I video degli Wham! di quegli anni erano un’eterna vacanza, l’incarnazione dell’edonismo disperato degli anni ottanta, spesso in precario equilibrio tra soft porno gay e Il tempo delle mele.


Wham! Rap, Wake me up (before you go-go), Last Christmas, Everything she wants, Club Tropicana erano trappole pop perfette. Ma il vero capolavoro degli Wham! è stato il modo in cui sono usciti di scena. Dopo soli quattro anni di carriera stellare e una tournée in Cina, il duo si è sciolto nel 1986.

È stato uno psicodramma pop perfettamente orchestrato: ragazzine in lacrime che minacciavano il suicidio, tonnellate di lettere, quintali di peluche, appelli, scioperi della fame. Dopo gli Wham! qualunque altra boyband ha avuto il dovere di mettere in scena il rituale mediatico dello scioglimento.

George Michael aveva già avuto un grande successo solista con la ballata Careless whisper del 1984, che, sebbene fosse stata scritta insieme a Andrew Ridgeley, l’altra metà degli Wham!, uscì come un singolo di George. Nel 1986, poco prima dell’annuncio dello scioglimento, era anche uscita la malinconica ballata A different corner.

Le lacrime dei fan hanno fatto in tempo ad asciugarsi con la velocità con cui si asciugavano i pennarelli Uni Posca sui loro diari: all’inizio del 1987 la carriera solista di George Michael cominciò con un botto: un duetto con Aretha Franklin. I knew you were waiting lo proiettò in una dimensione diversa: un rhythm n blues sempre molto pop ma più sofisticato e adulto. E la presenza di Aretha era praticamente una bolla papale.


Il pubblico ha cominciato ad accorgersi che George Michael era anche un grande cantante e non solo una grande popstar. L’album Faith uscì nel 1987 ed era una di quelle rare buste a sorpresa in cui ogni ogni regalino non deludeva. I want your sex era il primo singolo in cui un video dall’erotismo sfumato e un po’ kitsch si accompagnava a un testo pruriginoso, che però inneggiava alla monogamia. Un modo forse un po’ discutibile di affrontare, senza mai esplicitarlo, il tema dell’aids. Con I want your sex George Michael ha proiettato ancora, con scarsa convinzione, un’immagine eterosessuale.

Tra gli anni ottanta e novanta George Michael ha attraversato tutte le fasi dell’elaborazione interiore dell’omosessualità maschile: la negazione e il nascondersi prima, un traumatico coming out pubblico e l’orgogliosa presa di coscienza poi. Oltre alla sua musica George ci ha lasciato anche la sua esperienza: è stata l’unica celebrità a vivere e raccontare con estrema onestà queste fasi, anche nelle loro parti più private e dolorose.


Quando nel 1998 fu arrestato per oltraggio al pudore in un bagno pubblico di Los Angleles dopo essere stato adescato da un poliziotto in borghese, George capì che il coming out era l’unica via da fuga da una condanna a vita inflitta da tabloid assetati di scandali gay. Un coming out che è diventato spettacolo pop nel video per il singolo Outside.

La canzone è un disco funk muscolare e sudato che sembra uscito da una discoteca gay della fine degli anni settanta. E il testo è stupendamente ironico: “Sono stufo del divano, del letto e anche del tavolo della cucina… facciamolo fuori, all’aria aperta”. Giocando sul doppio senso di “outside” come “en plein air” e come fuori dal proverbiale “closet”, l’armadio dentro cui i gay possono arrivare a nascondersi per una vita intera. Alla fine di un video che gioca con immagini di esibizionismo, pornografia anni settanta e videosorveglianza, due poliziotti che credono di non essere spiati si baciano appassionatamente.

Le lenzuola di raso, le giarrettiere e la caricatura di eterosessualità di I want your sex sembrano un ricordo lontano. Con Outside George Michael riprese in mano la sua carriera, la sua musica e la sua sessualità. I tabloid inglesi però non hanno mollato l’osso: il suo successo intermittente e le sue abitudini sessuali (fu beccato a rimorchiare in un gabinetto pubblico una seconda volta a Londra) erano materie troppo appetitose. Più passava il tempo e più George Michael continuava a essere dipinto come una ex popstar in decadenza, divorato da vizi, alcol e droga.

Lui, dal canto suo, poteva rispondere solo in due modi, con la musica e con interviste oneste al punto dell’autolesionismo. Il Guardian ha ricostruito i retroscena di due memorabili interviste che George Michael aveva rilasciato a Simon Hattenstone.

È raro sentir parlare una celebrità di quel livello con una tale lucidità e una tale libertà di se stesso. Il sesso promiscuo? Gli piace, gli è sempre piaciuto e gli continuerà a piacere. È un problema per qualcuno? Le droghe? George ne parla apertamente. Il suo ufficio stampa era disperato ma alla fine George Michael ne uscì a testa alta.

Tra i tweet che lo hanno ricordato nel giorno della sua scomparsa il più condivisibile è stato quello dello scrittore inglese Hari Kunzru: “Possiamo smettere di ricordare che era ‘apertamente gay’ e che era ‘turbato’? Se era turbato lo era solo per colpa di tabloid omofobi e pruriginosi”.

C’è qualcosa di vittoriano nell’umiliazione mediatica che ha subito George Michael ed è importante ricordare che anche in tempi molto vicini a noi c’è stata un’opinione pubblica bigotta e crudele pronta allo sberleffo e alla lapidazione pubblica di un uomo per le sue abitudini sessuali. E questa opinione pubblica esiste ancora. Anzi, la sua voce rischia di diventare sempre più forte. È doppiamente importante quindi ricordare oggi George Michael per la sua musica, per la sua voce e per il suo coraggio.


C’è stato un giorno preciso in cui tutto il mondo, anche quello di chi non si interessava di musica pop, si è accorto che George Michael era un grande cantante.

È stato il 20 aprile del 1992, al concerto tributo per Freddie Mercury dei Queen alla Wembley arena di Londra. Mercury era morto di aids alla fine dell’anno precedente e stava diventando il primo santo gay della cultura pop in diretta televisiva. George Michael non si limitò a cantare per lui: lo resuscitò. Sarà una coincidenza, ma quel 20 aprile era anche il lunedì dell’Angelo.

A quel concerto si esibirono anche David Bowie, Annie Lennox e Liza Minnelli, ma l’ex Wham!, quello che sembrava un parrucchiere greco, rubò la scena a tutti: perché con la sua torrenziale Somebody to love riuscì a mostrare al mondo cosa significava essere Freddie Mercury e allo stesso tempo a mostrare tutta la gioia e la potenza di cosa significava cantare come George Michael.

pubblicità