“Tu non sei più una pastorella svizzera nell’ultimo atto. Sei la Callas che fa una pastorella svizzera”. Pare che Luchino Visconti avesse detto così a Maria Callas durante le prove della famosa Sonnambula del 1955 alla Scala. Un allestimento passato alla storia per lo sfavillante finale in cui la diva, con indosso i suoi famosi gioielli, terminava la sua ultima cavatina in un teatro illuminato a giorno.
Analogamente Meryl Streep in Florence, biopic dell’ereditiera newyorchese Florence Foster Jenkins (1868-1944), è sempre, in ogni fotogramma, Meryl Streep che fa la parte di una riccona stravagante che non sa cantare.
Una commedia a due facce
Non necessariamente questo è un male, anzi. Florence è un film a due facce. Uno spettatore poco interessato ai cortocircuiti estetici e alla storia del gusto ci vedrà una graziosa commedia agrodolce su un’attempata signora che si illude e, per amore viene illusa dal marito, di essere una grande cantante lirica. Uno spettatore più scaltrito e assetato di metadiscorsi ci troverà una luminosa parabola sulla glorificazione postmoderna del trash. Quale veicolo migliore per un trattato sul camp, sull’uso cioè consapevole e deliberato del cattivo gusto, di un’ennesima, estrema prova attoriale di Meryl Streep? Cosa c’è di più “meta” di prendere un mostro sacro come Streep, l’incarnazione della bravura, e metterla a recitare il ruolo della madre di tutte le “cagne maledette”?
Florence Foster Jenkins era talmente stordita dal denaro e dal privilegio da credere di essere un eccezionale soprano leggero. Le sue incisioni degli anni quaranta sono ancora oggetto di culto: nessuna cantante ha mai osato stuprare Mozart, Delibes e Strauss con tanta virulenza. Florence Foster Jenkins con la sua proterva mancanza di talento è stata iconoclasta, eretica e blasfema come nessun altro. Si discute ancora se lei se ne rendesse conto o no. Il film tiene giustamente i piedi in due staffe.
Sembra di vederla “La Streep” che si rimbocca le maniche prima di immergersi con gusto nella personalità e nell’arte di quella che è stata descritta come la peggior cantante della storia. Meryl Streep deve dimostrare l’assurdo: deve essere capace di cantare e recitare (brivido in sala) male. Ma male non basta: deve essere così pessima da scatenare imbarazzo prima e poi ilarità. E infine, in un crescendo di sensazioni forti, esaltazione e una forma di amore per l’orrido che deve esplodere in un applauso liberatorio di genuina adorazione. Sì perché la brutta arte, sembra dirci Florence, anche la pessima arte, può avere un suo valore.
Pop di inizio novecento
Florence Foster Jenkins era a modo suo un’icona pop prima che il pop esistesse. Era nota per le sue stravaganze, per i costumi assurdi che lei stessa confezionava per i suoi tableau vivant, benissimo resi nel film di Stephen Frears. Florence era soprattutto una generosa mecenate delle arti e i giornali newyorchesi parlavano bene di lei. Era più complicato parlare bene di lei quando cantava, ma bastava chiudere le orecchie e, nel caso, accettare con discrezione una bustarella.
La commedia di Frears è un triangolo, ma di tipo artistico più che amoroso. C’è Florence, invasata di bel canto e di manie di grandezza, c’è il marito-manager Saint Claire Bayfield (Hugh Grant) che l’ama teneramente pur mantenendo una doppia vita e c’è il giovane maestro accompagnatore della divina, Cosmé McMoon (un eccezionale Simon Helberg, sì quello di Big bang theory). La cosa più riuscita del film è il gioco di sguardi e di battute tra i tre. La faccia che fa McMoon il primo giorno in cui accompagna Florence al piano e la sente finalmente cantare (succede a venti minuti dall’inizio del film e l’attesa di sentire quella voce è alle stelle) è indimenticabile.
Lì si capisce che lady Florence è una pessima cantante ma anche una pazza, perché non si ferma, non può fermarsi. McMoon capisce che è in gioco il suo stipendio quindi non può ridere e non può smettere di suonare. La lunga Aria delle campanelle dalla Lakmé di Delibes, un florilegio di acuti virtuosistici, si trasforma in uno strazio, in una via crucis di gridolini e di guaìti. Ma lady Florence vuole andare avanti e arriva fino all’ultimo, mostruoso acuto.
La forza della musica
Il momento in cui questa commediola si trasforma in una specie di trattato sul cattivo gusto è la scena in cui Florence riesce a esibirsi alla Carnegie Hall, la più prestigiosa sala da concerti di New York. Il concerto è stato organizzato per i “nostri ragazzi”, i soldati statunitensi impegnati al fronte. È un pubblico impreparato dunque, non il tipo di gente che andrebbe normalmente a un recital di coloratura.
In sala sono tutti ubriachi, ma c’è anche Cole Porter, il compositore che sta rivoluzionando la canzone statunitense, la diva del cinema Tallulah Bankhead e tanta gente di teatro curiosa di ascoltare “il mostro”. Florence sale sul palco vestita con un improbabile costume orientalista, un po’ Carmen e un po’ baiadera, non fa in tempo ad accennare l’inizio di Valse caressante che il teatro esplode in una risata. Dovrebbe essere la fine dei suoi sogni di gloria ma lì tra lei e il pubblico si stabilisce una specie di patto. Di sospensione della credulità. È tale la voglia di cantare di Florence ed è tale la sete di mostruosità del pubblico che lo spettacolo si trasforma in un trionfo. Un trionfo del cattivo gusto, del trash diremmo oggi. Alcuni credono sia uno spettacolo da circo, altri che sia un recital comico, qualcuno pensa che lei sia solo una matta, ma tutti sono lì in piedi ad applaudire. È un momento catartico e a suo modo è una celebrazione della forza della musica e della voce umana.
Prima del camp
Florence Foster Jenkins non era una dadaista o una situazionista e non era animata da spirito punk ante litteram. Era però il catalizzatore di qualcosa che stava succedendo nell’aria: la guerra stava entrando nel suo ultimo sanguinoso anno e nessuno sapeva cosa sarebbe successo dopo. Nessuno immaginava che i confini tra l’alto e il basso, tra l’arte e la non arte sarebbero andati confondendosi sempre di più. Nessuno immaginava che ci sarebbe stata una musica pop e poi una cultura pop in cui il talento come lo si intendeva nell’ottocento non sarebbe stato così centrale. Nessuno immaginava che l’arte, la musica, la cultura stessa, riproducendosi in mille modi sarebbero entrate in circolo nella società con modalità del tutto diverse da quelle tradizionali.
Nel finale il film torna a correre saldo sui suoi binari di commedia agrodolce. Streep può perfino concedersi un registro un po’ più drammatico e sembra godersi ogni secondo. Una curiosità: è il secondo film in cui Meryl Streep fa la parte di una malata di sifilide, malattia teatrale per eccellenza, l’altro era La mia Africa di Sydney Pollack.
Florence è un film colto e intelligente, con i suoi momenti di genuina comicità. Non arriva però all’altezza di quel piccolo capolavoro di consapevolezza camp che era Topsy Turvy-Sottosopra di Mike Leigh, un film simile per ambientazione e ambizione di essere uno spaccato di storia del gusto ma con molte più frecce nel suo arco.
Florence Foster Jenkins, quella vera, ha comunque l’ultima parola. Provate a cercarla su Spotify e scorrerete tutte le sue incisioni più atroci . Provate a cliccare su “artisti simili”: troverete Maria Callas, Marilyn Horne e Jessye Norman, praticamente le migliori cantanti liriche del secolo scorso. L’algoritmo di Spotify non riesce a distinguere quella qualità che rende Maria Callas “la divina” e Florence “il peggior soprano del mondo”. La signora Florence Foster Jenkins, nel lontano 1944, era già attrezzata per il postmoderno, per il post-gusto e forse anche per la post-verità.
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