In questi mesi di reclusione ho ascoltato molto Miles Davis. Un po’ perché è uno dei miei musicisti preferiti e un po’ perché su Netflix è uscito un bel documentario sulla sua vita.

Mi sono riascoltato con immenso piacere un po’ tutto: i classici come Kind of blue e Sketches of Spain, la svolta psichedelica di Bitches brew e la folgorante rinascita anni ottanta di Tutu. Ma la vera riscoperta per me è stato il Miles schizofrenico e drogatissimo di On the corner. La musica di questo album del 1972 è un ibrido cubista di funk, dub, rock acido e raga indiani. La critica jazz più paludata non lo capisce: lo trova ripetitivo, caotico, inascoltabile. Per la critica rock più fricchettona è troppo nero, troppo funk e troppo incasinato. Non è un ascolto facile, e a rendere tutto più indigesto c’è il fatto che Miles suona pochissimo la sua tromba per darci dentro con l’organo elettrico. Come Bitches brew anche On the corner nasce da una serie di session e improvvisazioni pesantemente rimontate in studio, Davis continua a sperimentare con loop e postproduzioni e in testa ha più la musica concreta di Stockhausen e il funk di Sly Stone che il cool jazz che lo aveva reso famoso.

Risentirlo oggi lascia stupefatti: nel 1972 Miles Davis anticipava già hip hop, drum n bass e turntablism. On the corner è una capsula spaziale lanciata in un elettrizzante futuro afrocentrico. “Non m’interessa chi se lo compra”, ha detto Davis commentando l’insuccesso di On the corner, “voglio solo che arrivi ai neri, così sarò ricordato quando sarò morto. Non suono per i bianchi. Voglio sentire un nero che dice, ‘Sì, Miles Davis m’intrippa’”.

Miles Davis
On the corner
Columbia, 1972

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