Per molti telespettatori l’edizione 2020 di Sanremo è stato l’ultimo ricordo prima della pandemia. Era il festival di Diodato, vincitore sobrio e in qualche modo profetico con la sua Fai rumore; il Sanremo di Achille Lauro e dei suoi travestimenti; ma soprattutto era il Sanremo di una coppia scoppiata, quella di Morgan e Bugo. Il loro battibecco in diretta è diventato un irresistibile meme prepandemico.
Per quel fenomeno meraviglioso tipico di Sanremo, per cui qualunque cosa avvenga sul palco dell’Ariston viene amplificata fino a diventare un’idra dalle cento teste, il litigio tra Morgan e Bugo è stato il simbolo di una spaccatura tra il prima e il dopo. Quel maldestro siparietto è stato il primo “bug” del 2020, il segnale che le cose sarebbero andate sempre peggio, il primo dei sette sigilli dell’Apocalisse.
È passato un anno e in un modo o in un altro Sanremo è tornato. Diversi anni fa si è detto che Sanremo era diventato uno spettacolo per “telemorenti”, ma nel 2021 anche l’ultimo dei telemoribondi sembra aver abbandonato questa valle di lacrime. Lo show televisivo senza pubblico, con l’esibizione in differita di un concorrente in quarantena, ha qualcosa di distopico: sembra uno di quei tabelloni pubblicitari rimasti accesi in una metropoli annientata dall’apocalisse zombi.
Per fortuna però a Sanremo c’è anche la musica. Tutti i cantanti di questa edizione, dall’eterna Orietta Berti al trapper Fasma, sono valorosi e sgargianti come supereroi della Marvel e hanno mandato, a noi teleresistenti, un messaggio di rinascita. Le canzoni esistono e resistono, ci dicono Orietta, Fasma, Malika, Arisa e Irama in quarantena. Ci vuole ben altro per annientare quella che insistiamo a chiamare musica leggera.
Dopo gli stracci volati tra Morgan e Bugo, e dopo un terribile anno di pandemia che sembra tutt’altro che concluso, la musica di questo Sanremo sembra un reset. Qualcuno si è perfino lamentato che questi cantanti non li conosce nessuno: in che senso questi sarebbero dei big? Chi è Fulminacci? Chi è Madame?
Tra le tendenze che emergono quest’anno (il definitivo sdoganamento dell’indie, l’uso e l’abuso di autotune, il trionfo di produttori superstar come Dardust), quella che mi ha più colpito è il ritorno del duo. Del duo, si badi, e non del duetto.
Dopo un anno di pandemia e di isolamento, il duo diventa forse l’unico modo davvero sostenibile di fare musica
I duetti abbondano da sempre a Sanremo (e Morgan e Bugo ci hanno dimostrato come possano finire male), ma il fascino sottile del duo musicale, fatto di complicità, di amicizia e in qualche caso di amore, è sempre stato presente sottotraccia nella storia della musica pop e quindi anche in quella di Sanremo. Da Simon and Garfunkel agli Eurythmics, da Hall & Oates ai Soft Cell, da Al Bano e Romina a Paola e Chiara, il duo pop è una cellula, è un nucleo creativo e affettivo e scatena nel pubblico una serie di congetture e di fantasie. E le fantasie che il pubblico proietta sui cantanti sono il vero carburante del successo pop.
In Literally, la biografia dei Pet Shop Boys scritta da Chris Heath nel 1993, si parla dei giovanissimi fan giapponesi che inondavano i loro beniamini di letterine, peluche e disegni in cui Neil Tennant appariva vestito da sposa e Chris Lowe da sposo. I fan proiettavano sul laconico e imbronciato duo britannico tutte le loro fantasie romantiche da Shōjo manga.
Dopo un anno di pandemia e di isolamento, il duo diventa forse l’unico modo davvero sostenibile di fare musica, “tra congiunti”. Forse siamo già al tramonto del modello di business delle affollatissime e intercambiabili band del k-pop. Il duo è una cellula, una monade creativa autosufficiente. In un senso più ampio è un ritorno inevitabile all’intimità, al privato e alla monogamia.
Eppure i duo che abbiamo ascoltato a Sanremo 2021 sono decisamente variegati e ci offrono una panoramica ampia di quante moltitudini può contenere oggi il concetto di coppia. C’è la coppia nella vita (i deliziosi Coma_Cose, personalmente i miei preferiti del festival), la coppia di amici e complici creativi (gli ottimi Colapesce e Dimartino) e la coppia androgina e alchemica, in cui identità e ruoli sono fluidi e sempre in divenire (i sorprendenti La rappresentante di lista).
Le tre canzoni presentate al festival da queste coppie di fatto, sebbene diversissime, hanno in comune una cosa: la chimica tra due persone, la forza del non detto, di quegli spazi di silenzio che non hanno bisogno di essere riempiti da nulla. Ho molto amato Fiamme negli occhi dei Coma_Cose perché è una canzone d’amore che non ha paura dei cliché, anzi li cavalca e li reinventa. Fausto Zanardelli e Francesca Mesiano, con le loro vocali lombarde apertissime e quel modo di guardarsi mentre cantano di “Una Venere di Milo che prova ad abbracciare un uomo” e di “un tostapane che cade in una vasca di risentimento”, sono romantici e lunari, e sfuggono a qualunque melensaggine, pur portando a Sanremo il più classico dei duetti d’amore.
Musica leggerissima, la canzone molto “meta” presentata dalla coppia artistica di Colapesce e Dimartino, è la tipica canzone che parla di canzoni. È l’erede naturale di Una musica può fare di Max Gazzé e ha la forza dirompente di un “instant classic”. Il fatto che somigli troppo a una canzone degli Empire of the Sun è un dato davvero poco interessante in un mondo post-tutto che vive di mashup, cover, rimandi e citazioni.
Colapesce e Dimartino sul palco sono la cosa più vicina possibile a Ciao 2021, il finto varietà italiano creato a Capodanno dalla tv russa, hanno i giusti tempi comici e soprattutto ci ricordano che la musica leggerissima è eterna, pervasiva, inevitabile. Si insinua gioiosamente ovunque: “dentro ai supermercati, la cantano i soldati, i figli alcolizzati, i preti progressisti…”. La musica pop per fortuna colora anche gli intersizi di un lugubre varietà televisivo in tempo di pandemia.
Anche Amare della Rappresentante di lista ha qualcosa di classicamente sanremese. Attacca come una normale canzone sentimentale e poi tracima per trasformarsi in qualcosa di emotivamente torrenziale, in qualcosa di molto simile agli Arcade Fire.
La dinamica di coppia tra Veronica Lucchesi e Dario Francesco Mangiaracina è affascinante: sono dei mutaforma che a volte sembrano gemelli bambini, a volte vecchi innamorati, con una polarità maschio-femmina sempre in movimento e mai fissa in un punto. La loro è musica pop organica, che parla direttamente al corpo, che sale come un’endorfina e ha una fortissima carica liberatoria.
Questo Sanremo che riscopre il fascino e la forza del duo è anche e soprattutto un modo per ricordarci che le cose che ci tengono uniti sono tante e vanno ben oltre il concetto binario della coppia: ci sono la complicità, l’amicizia, il sesso, l’erotismo, la solidarietà e una visione comune del futuro. Ogni coppia, a Sanremo come fuori dallo schermo televisivo, contiene davvero moltitudini.
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