La grande truffa dei Sigue Sigue Sputnik
Se nel 1986 avevi 16 anni e amavi il pop, i videogiochi e la fantascienza, gli occhi non potevano non caderti sui Sigue Sigue Sputnik. E per “caderti” intendo proprio schizzarti fuori dalle orbite e penzolare come due biglie, come nei cartoni animati di Tex Avery. In una tv musicale dominata da capelli cotonati, lurex, finto lusso e nebbioni di ghiaccio secco, i Sigue Sigue Sputnik sono entrati come una banda di teppisti ciberpunk tutti sesso, feticismo hi-tech e ultraviolenza. Il loro singolo di esordio, Love missile F1-11, era una scheggia di rock’n’roll futurista sovraccarica di campionamenti montati a velocità folle dalle mani esperte di Giorgio Moroder.
Il video era ipercinetico quanto la musica: sembrava che gli ologrammi dei tabelloni pubblicitari di Blade runner ti venissero addosso dalla tv. E poi una pioggia di pixel, di misteriose scritte in giapponese e più missili, bombe ed esplosioni che in qualunque film potesse passare a quell’epoca la televisione. Love missile F1-11 era rock giocattolo per ultranerd, musica-transformer per ragazzini dagli ormoni impazziti e con lunghi pomeriggi da riempire tra cartoni giapponesi, rudimentali videogiochi sparatutto e masturbazione.
I due fondatori della band sono Tony James (ex bassista dei Generation X, la band di Billy Idol) e il chitarrista Neal X, che reclutano il cantante Martin Degville (stilista ed ex coinquilino di Boy George) e Yana YaYa, tastierista e sosia di Jane Mansfield. Il quartier generale della band diventa YaYa, la boutique di Degville, e lì i Sigue Sigue Sputnik decidono di diventare non solo un gruppo pop ma anche un’azienda, una fantascientifica multinazionale del divertimento hi-tech: prima ancora di riconoscersi come band, decidono di essere un brand. E naturalmente inventano un logo: una stella sormontata da tre S, qualcosa che avesse un minaccioso aspetto da regime totalitario ma che fosse anche “carino” e pop.
Un negozio di moda punk, un gruppo di scappati di casa con capelli assurdi, scarsissima destrezza musicale (forse Tony James e Neal X facevano solo finta di essere scarsi) e un contratto miliardario con la Emi che fa partire un’onda anomala d’interesse dei mezzi d’informazione prima ancora che la band suonasse una nota. Se sembra familiare è perché lo è: i Sigue Sigue Sputnik, poco meno di dieci anni dopo quella “grande truffa del rock n roll” che sono stati i Sex Pistols, ripercorrono la stessa strada, ma con un piglio massimalista, aziendale e ultracapitalista anni ottanta.
Prima ancora di mettere insieme un album i Sigue Sigue Sputnik decidono di vendere gli spazi tra una canzone e l’altra come spot pubblicitari. E almeno per l’edizione inglese ci riescono: veri messaggi promozionali di L’Oréal, della rivista di moda I-D e della boutique di Kensington Pure Sex si alternano a finti spot della Sputnik corporation e di un videogioco dei Sigue Sigue Sputnik che purtroppo non vedremo mai.
Quando esce Flaunt it, il loro album di esordio, la prima edizione arriva nei negozi in una confezione che sembra la scatola di un robot giocattolo giapponese, un Gundam vagamente effeminato che spara missili dalle dita. E il disco ovviamente è una bomba. Il me stesso del 2021 ci vede dietro l’ispirazione dei Suicide, dei New York Dolls e, nelle tecniche di produzione, il suono saturo di campionamenti ed effetti dub dei Colourbox; ma il me stesso sedicenne ci vedeva qualcosa di assolutamente pazzesco e mai sentito prima.
Più che le canzoni, che sono tutte trappole pensate per scassinare la soglia dell’attenzione di teenager iperstimolati, era la visione dei Sigue Sigue Sputnik che affascinava: il mondo di Flaunt it è un paese dei balocchi in cui l’immaginario di un ragazzino dei primi anni ottanta si materializzava e si sessualizzava. L’unica ballad dell’album s’intitola Atari baby ed è la serenata per una creatura tentatrice senza sesso che s’incarna, come in Videodrome di David Cronenberg, dai pixel di un videogioco: “Transex, transform, transexy baby” canta Degville, su un coro di voci angeliche.
In questo cabaret postumano e fantascientifico il genere è solo un accessorio e le fantasie sessuali sono ologrammi proteiformi. Altro che il fantomatico “gender nelle scuole” che nel 2021 spaventa le destre ipocrite e tremebonde: un sedicenne italiano del 1986 poteva fantasticare con una canzone intitolata She’s my man (“lei è il mio uomo”) a tutto volume nel walkman.
I critici seri consideravano i Sigue Sigue Sputnik dei buffoni e Flaunt it un cumulo di immondizia. Quello che non riuscivano a capire è che il 1986 non era il 1976: Flaunt it era talmente finto che era impossibile criticarlo usando la lente dell’autenticità e del rock, e neanche quella dello sberleffo punk. Flaunt it non era solo un disco pop: era quello che oggi chiameremmo intrattenimento immersivo, allo stesso tempo musica, trailer, videoclip, videogame e giocattolone hi-tech. E, inevitabilmente, i Sigue Sigue Sputnik sono stati una meteora che ha brevemente transitato con la sua coda di pixel nel firmamento del pop anni ottanta.
Sigue Sigue Sputnik
Flaunt it
Emi, 1986