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Duke Ellington e la rivoluzione della discografia afroamericana

Duke Ellington, anni trenta. (Metronome/Getty Images)

Questa rubrica si occupa esclusivamente di album. Ma questa volta facciamo un’eccezione per una ragione molto semplice: quando la musica di cui parliamo uscì, gli album, ovvero i long playing a trentatré giri, non esistevano ancora.

Il 26 maggio del 1935, Edward “Duke” Ellington (1899-1974), il più grande compositore della storia del jazz, ebbe la notizia che sua madre Daisy, a cui era molto legato, era morta. Ellington era in tournée, una di quelle tournée infinite fatte di lunghi viaggi in treno su e giù per gli Stati Uniti. Era già molto famoso e aveva un vagone tutto per sé, lontano dal resto della sua orchestra. Durante uno di quei viaggi, annientato dal dolore, cominciò a comporre la sua elegia funebre per Daisy: Reminiscing in tempo, una suite orchestrale in quattro parti, della durata di quasi tredici minuti, che uscì sulle quattro facciate di due dischi a 78 giri.

I dischi di allora erano pensati per contenere, in una facciata, un pezzo di massimo quattro minuti. Era il formato perfetto per quella che il pubblico statunitense chiamava “black music”, o “jungle music”, lo swing delle grandi orchestre di locali leggendari come il Cotton Club di Harlem. I pezzi erano brevi, molto ritmati e sincopati, e i 78 giri di swing venivano comprati solo per ballare. Il pubblico dei locali swing, soprattutto quello che comprava dischi, era essenzialmente bianco e dalla “black music” si aspettava ritmo, improvvisazione e un po’ di quella selvaggia sensualità che tanto piaceva attribuire ai musicisti neri. La discografia cercava di accontentarli invadendo il mercato di 78 giri con pezzi swing a cui spesso erano associati balli come il balboa, lo shag e il charleston, tutti antesignani del boogie-woogie degli anni quaranta. La Brunswick, la casa discografica che pubblicò i due 78 giri che contenevano le quattro parti di Reminiscing in tempo, non sapendo bene come definire la nuova musica di Ellington, sull’etichetta scrisse ingannevolmente “fox-trot”, associando al famoso nome di Duke Ellington il nome di un ballo altrettanto famoso. Peccato che la musica incisa su quei dischi tutto fosse tranne che un fox trot.

Reminiscing in tempo è una lunga composizione unica, divisa in quattro parti essenzialmente per via dei limiti imposti dal formato del 78 giri. La musica è tutta scritta e il pezzo non ha niente d’improvvisato: l’orchestra segue esattamente lo spartito, come se eseguisse un pezzo di musica classica. Non c’è swing, non c’è ballo, non c’è jungle: c’è l’elogio funebre di un figlio che decide di far parlare la musica per celebrare la memoria di una madre amatissima. E soprattutto c’è la presa di coscienza di un grande artista che decide di fare a modo suo, anche tradendo le aspettative del pubblico e dei suoi manager. Reminiscing in tempo è uno dei primi momenti in cui la musica afroamericana si dimostra un volano irresistibile d’innovazione e di cambiamento. Duke Ellington, in poco più di 12 minuti, trascende i limiti stilistici, tecnologici e razziali che ingabbiavano la sua arte: compone la musica senza lasciare ai solisti spazio d’improvvisazione, deborda dal formato della canzone swing da tre minuti e si presenta non più come il direttore di una grande orchestra da ballo ma come un compositore nel senso più ampio e “bianco” del termine.

“Una descrizione dettagliata della mia solitudine dopo la perdita di mia madre”: così Duke Ellington descrive Reminiscing in tempo nella sua autobiografia, Music is my mistress. “Ogni pagina di quello spartito era disseminata dalle sbavature delle mie lacrime. Me ne stavo seduto lì a guardare nel vuoto, battevo il piede e mi dicevo: ‘Edward, lei non vorrebbe vederti andare in pezzi, ricascare nel passato, nella tua perdita e nella distruzione. Lei non ha passato la prima parte della tua vita per prepararti a tutta questa negatività’”.

Ascoltando la musica si ha la sensazione dell’andamento del treno su cui viaggiava, da un capo all’altro degli Stati Uniti, cercando di dare un senso al dolore e soprattutto si sente la sua lontananza, fisica (scriveva da solo nel suo vagone riservato) e anche psicologica dai musicisti della sua orchestra, i cui assoli qui vengono usati solo per creare contrasti di colore e di tono. In Reminiscing in tempo l’orchestra swing smette di essere un insieme di solisti che scalpitano in attesa del loro momento, ma diventa il canale attraverso cui Duke Ellington e solo Duke Ellington esprime le proprie emozioni. “Swing is business, jazz is music”, diceva sempre Duke Ellington, “Lo swing è commercio, il jazz è musica”. E questa composizione del 1935 in onore della madre Daisy è stato il primo momento in cui lo ha capito e lo ha messo in pratica.

Duke Ellington and his orchestra
Reminiscing in tempo
Brunswick, 1935


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