La cantante brasiliana Elza Soares (Elza Gomes da Conceição) è morta a Rio de Janeiro il 23 gennaio 2022. Aveva 91 anni e in più di sessant’anni di carriera ha spaziato tra samba, jazz, sambalanço, bossa nova, soul, rock, hip hop e musica elettronica.
Elza Soares è nata nel 1930 nella favela di Moça Bonita (oggi Vila Vintém) nella zona ovest di Rio de Janeiro. Dopo un’infanzia poverissima viene costretta a sposare, a 12 anni, un amico del padre, Lourdes Antônio Soares, che l’aveva stuprata. Tra violenze e sopraffazioni di ogni tipo Soares ha il primo figlio a 13 anni. A ventun anni, dopo una vita infernale (perde due figli per denutrizione e la sua bambina più piccola, Dilma, viene rapita) si ritrova vedova e con quattro figli da crescere. Per mantenersi fa le pulizie, ma sa che il suo talento è cantare e sa che nel Brasile degli anni cinquanta la sua unica, folle speranza per una vita migliore può arrivare dal successo nella musica.
Con la forza della disperazione, nel 1953, s’iscrive al concorso musicale radiofonico Calouros em desfile, presentato dal famoso compositore Ary Barroso. L’azzimato presentatore quando vede salire sul palco la ragazza che porta chiaramente impressi i segni della povertà le chiede: “E tu, figlia mia, da che pianeta vieni?”. Lei entra nella leggenda della musica popolare brasiliana rispondendo: “Dal suo stesso pianeta, signore, il pianeta della fame”. Da lì comincia il suo successo: Elza Soares diventa la più grande stella del samba senza mai rinnegare la miseria delle sue origini, anzi raccontandola sempre, a volte con candore, a volte con ironia, a volte con orgoglio e sempre con una sorta di rabbia controllata, di ferocia che scorre sotto traccia. Il suo ultimo album, uscito nel 2019, quando lei ha 89 anni, s’intitolerà proprio Planeta fome, pianeta affamato.
All’inizio degli anni sessanta Elza Soares è già famosa e abbastanza ricca, ha inciso due album di successo con l’etichetta Odeon che la lancia a livello internazionale. Sono gli anni del sambalanço, un samba moderno ibridato con il jazz, figlio dell’urbanizzazione frenetica del Brasile in quegli anni. Elza Soares tiene un piede nel sambalanço e uno nelle più tradizionali scuole di samba delle favelas di Rio: la sua personalità, il suo stile e la sua voce sono dirompenti.
Nel 1963, quando incide Sambossa (una crasi tra samba e bossa nova), ha conosciuto, durante i mondiali di calcio in Cile dell’anno prima, il grande, travagliato amore della sua vita: il calciatore Garrincha, superstar del calcio brasiliano e, come lei, un sopravvissuto del “pianeta della fame”. La storia d’amore tra i due viene considerata scandalosa dai mezzi d’informazione brasiliana e quando nel 1966 lui lascia la moglie per sposare Elza Soares, i due prima sono costretti a trasferirsi a São Paulo, poi a rifugiarsi in Italia per qualche tempo.
Sambossa è uno degli album più belli ed effervescenti della prima fase della carriera di Elza Soares. Gli arrangiamenti sono fastosi e festosi, i samba sono allegri e pieni d’ironia e sempre a cavallo tra lo swing e il ritmo sincopato della bossa nova. L’album esce nel marzo del 1963 preceduto da un 78 giri, quello che noi oggi chiameremmo un singolo, con la sua irresistibile versione di Só danço samba di Antônio Carlos Jobim e Vinícius de Moraes. Elza Soares ha 33 anni e la sua voce è graffiante e inconfondibile. Quando si lancia nello scat singing ricorda Louis Armstrong, quando rallenta e diventa più sensuale sembra Eartha Kitt, pur rimanendo sempre inequivocabilmente carioca.
Sambossa viene registrato, come si usava all’epoca, molto rapidamente negli studi della Odeon di Rio de Janeiro sotto la direzione musicale del pianista José Ribamar (1919-1982). Il fatto che una donna con il vissuto drammatico di Elza Soares, un vissuto che lei non ha mai rimosso o edulcorato, possa essere capace di produrre musica così allegra e spensieratamente commerciale è alla radice della rilevanza culturale della musica popolare brasiliana. La bossa nova e il samba negli anni sessanta sono un travolgente fenomeno commerciale. In Europa e negli Stati Uniti la musica brasiliana è la musica dei night club più alla moda, ma come tutte le forme d’arte di successo elaborate da comunità emarginate ha un doppio livello di lettura. Il samba, che è spensierato divertimento notturno per i bianchi di Parigi e di New York, diventa per i poveri e neri (come Elza Soares) un grimaldello per uscire dal “pianeta della fame”, un’arma, un mezzo per reinventarsi la vita.
Quando in A corda e a caçamba (La corda e il secchio) Elza Soares canta “Il samba è musica e poesia, sofferenza e allegria. Samba, la gente povera che lavora per vivere e la gente ricca che non ha niente da fare”, a un ascoltatore bianco può sembrare ingenua e consolatoria. A un ascoltatore privilegiato sfugge che quando Elzinha (come si faceva chiamare all’epoca) canta “Il samba è un grido di gioia, è la voce del popolo nel lamento, il samba è un ritmo caldo che mescola e rimescola e che ribolle con la gente” canta i sommovimenti della società multietnica brasiliana, il suo orgoglio e soprattutto la sua voglia di rivalsa.
Sono temi che una cantante nera non poteva rendere espliciti all’inizio degli anni sessanta, né in Brasile né negli Stati Uniti e neanche in Europa. Sono temi che la musica popolare brasiliana commercializzata per i bianchi deve nascondere sotto una glassa di esotismo zuccherino e di sensuale allegria. Eppure sono temi fondativi: nell’ultima fase della sua lunghissima carriera Elza Soares ha potuto, soprattutto dal 2000 in poi, esplicitarli e renderli in una chiave addirittura rivoluzionaria. Tra i settanta e gli ottant’anni è tornata a cantare di razzismo, di povertà, di emarginazione con una forza e una freschezza che non ha nulla d’ingenuo, di esotico o di consolatorio. La Elza Soares di Sambossa era la stessa Elzinha che abbiamo visto al Primavera sound di Barcellona, ottantacinquenne, regalmente seduta su un trono di paillettes, circondata da ballerini e da giovani musicisti, cantare A carne: “La carne che costa meno al mercato è quella nera, dobbiamo lottare con intelligenza per il rispetto, per la giustizia e per il rispetto perché questo paese sta facendo diventare tutti quanti neri”.
Elza Soares
Sambossa
Odeon, 1963
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