Alla fine è tutto qui? Peggy Lee e l’arte di invecchiare
Il 1975 era l’anno di Young americans di David Bowie, di Born to run di Bruce Springsteen e di Horses di Patti Smith. Il mondo della musica statunitense non stava esattamente trattenendo il fiato per l’uscita di un nuovo, ennesimo album dell’ultracinquantenne Peggy Lee. Eppure Norma Deloris Egstrom (1920-2002), in arte Peggy Lee, era stata, insieme a Frank Sinatra e a Bing Crosby, una delle principali artefici dell’assimilazione del jazz e del blues nella musica pop americana prima della nascita del rock’n’roll.
È il 1938 quando Norma, a 17 anni, lascia la casa dei genitori nel North Dakota per trasferirsi a Hollywood. Dopo aver lavorato come cuoca, cameriera e buttadentro in un luna park, nel 1940 viene notata da Benny Goodman, che la vuole nella sua orchestra. Non essendo una cantante particolarmente dotata per estensione, affina uno stile molto personale: anziché competere con il fragore della band e con il vociare del pubblico, comincia, grazie anche alla tecnologia del microfono, a cantare sempre più piano, in un modo confidenziale e, per l’epoca, decisamente intimo e un po’ conturbante. Il pubblico ammutoliva per ascoltarla e lei, dotata di un eccezionale senso del ritmo e della dinamica, cantava senza fretta, facendo leva anche sui vuoti, sui silenzi, sui non detti e sui doppi sensi.
Dai primi grandi successi degli anni quaranta (Why don’t you do right tra tutti) alla rivoluzionaria Fever (uscita nel 1958 poi cantata da chiunque), la carriera di Peggy Lee è stata lunga e costellata d’innovazioni e reinvenzioni. Negli anni cinquanta, con il tramonto delle big band, Lee ha preso in mano la sua carriera e ha cominciato a lavorare sul suo personaggio, oltre che sulla sua musica. Ogni sera, in camerino, si trasformava: trucco e capelli inconfondibili, sfavillanti toilette da sera, pellicce, stole e uno show sempre innervato di blues e di jazz ma che si andava, con il tempo, trasformando in un sofisticato cabaret. Non importa che là fuori infuriasse il rock’n’roll, Peggy Lee continuava a riempire locali come il Basin Street east e la Empire room del Waldorf Astoria a New York e a incantare con la sua mistica e il suo sex appeal da ragazza che cerca l’uomo giusto ma nel frattempo non rinuncia a divertirsi e a divertire. Davanti al suo pubblico si apriva: recitava, scherzava, raccontava storie e quando cantava gesticolava in modo studiato e camp trasformando i suoi limiti vocali in punti di forza.
Peggy Lee è stata una delle prime donne nell’industria musicale americana a occuparsi da sola della propria carriera e a capire l’importanza di scegliere, per sé, il repertorio, i musicisti e le serate. È stata anche una delle prime a incorporare nel pop statunitense elementi latini: la sua Mañana (is soon enough for me), del 1947, è stata, quarant’anni prima, un’antesignana della Isla bonita di Madonna, e la stessa Madonna si è trovata spesso a ricalcare le mosse di Peggy Lee. Non solo si è direttamente ispirata al suo modo di cantare quando ha inciso, nel 1990, I’m breathless, quel goffo album pop-jazz che faceva da colonna sonora del film Dick Tracy, ma nel 1993 ha anche realizzato una sua versione dance di Fever. E come Peggy Lee prima di lei, anche Madonna ha dovuto inventarsi, non senza passi falsi, un modo d’invecchiare facendo un mestiere che la voleva eternamente giovane e sexy.
Nel 1969, quando è già considerata finita da manager e case discografiche, Peggy Lee ha, a sorpresa, una grande hit in quella nicchia che, ancora oggi, viene chiamata nel marketing musicale adult contemporary, ovvero una zona grigia tra pop e jazz vocale, tra cabaret e musical, rivolta a un pubblico sostanzialmente conservatore e non più giovane. Is that all there is, scritta espressamente per lei dal duo Jerry Leiber e Mike Stoller, autori di molti successi di Elvis Presley, è qualcosa di unico nel panorama pop della fine degli anni sessanta. Nella struttura è un’anticaglia: sembra una canzone da cabaret di quelle che Kurt Weill scriveva negli Stati Uniti dopo essere fuggito dalla Germania nazista, qualcosa di simile a Surabaya Johnny o Alabama song. Il testo, nichilista e senza speranze, parla di una bambina che fin da piccola è distaccata e delusa da tutto. Va a fuoco la sua casa e lei, infreddolita e in braccio al papà che l’ha salvata dalle fiamme, dice a se stessa: “È tutto qui, un incendio?”. La portano al circo e lei dice: “Tutto qui?”.
S’innamora del più bel ragazzo del mondo e ancora: “È tutto qui l’amore?”. A ogni verso la risposta del ritornello è: visto che nulla ha senso non ci resta che stappare una bottiglia e ballare, ballare fino allo stordimento, fino all’ultima dissolvenza, all’annullamento. La protagonista della canzone, ormai invecchiata, potrebbe anche farla finita ma poi decide di no, perché non è pronta all’ennesima delusione che potrebbe riservarle la morte. Solo Peggy Lee può cantare un testo del genere con la giusta leggerezza e crudele ironia, e solo una Peggy Lee matura e “bollita” può dare un senso a questo soverchiante senso di disillusione. La canzone è stata ricantata da innumerevoli artiste, da Ornella Vanoni a Pj Harvey, ma si ha sempre l’impressione che facciano tutte il verso a Peggy Lee, che quella canzone l’ha adattata, con crudele leggerezza, alla propria pelle.
Grazie a Is that all there is pubblico e discografia si ricordano dell’esistenza della vecchia diva. Leiber e Stoller hanno in mente un intero concept album di cabaret postmoderno da far cantare a Peggy Lee ma non c’è tempo: la Capitol mette insieme un album in fretta e furia per capitalizzare sul successo del pezzo e Peggy raccoglie le sue stole e i suoi abiti da sera e parte per una lunga tournée. Mentre lei è in Giappone, Leiber e Stoller continuano a lavorare su nuove canzoni ancora più estreme, e aspettano con pazienza che la diva torni. Dovranno aspettare sei anni, sei anni in cui Peggy Lee, sfinita dalle tournée e sempre più stanca e irritabile, rimanda ogni nuovo impegno.
Dopo un viaggio in India scopre la meditazione trascendentale, una pratica che, se possibile, la stacca sempre di più da se stessa e dai suoi impegni. La Columbia finisce per terminare il suo contratto con lei e la favolosa Ms Peggy Lee si ritrova senza etichetta con una manciata di canzoni non esattamente facili scritte per lei. Leiber e Stoller riescono a convincerla a rientrare in studio con loro e con l’arrangiatore Johnny Mandel (già collaboratore di Tony Bennett, Frank Sinatra e Barbra Streisand), e le trovano anche un nuovo contratto discografico con l’etichetta A&M che, senza crederci troppo, finanzia il folle progetto.
Pronta a ricominciare
Una volta in studio Peggy Lee torna a essere l’interprete pignola e perfezionista che è sempre stata: litiga continuamente con i suoi autori e con il direttore musicale. Si presenta in studio truccata e vestita come se dovesse andare in scena, si chiude per ore in una stanza per meditare e torna fuori più incazzata di prima. Eppure l’album prende forma. Le nuove canzoni di Leiber e Stoller toccano Peggy Lee sui suoi nervi scoperti: parlano di stupore e stordimento davanti ai misteri della vita, di delusioni, d’invecchiamento, di desiderio, di fuga dalla realtà, di sadomasochismo e di sesso con sconosciuti. E alla fine Peggy canta tutto. Si rifiuta di cantarne solo una, che trova davvero troppo assurda: parlava della prima guerra mondiale.
Nel settembre del 1975 Mirrors, l’ennesimo album di Peggy Lee, è pronto e non somiglia a nulla di riconducibile alle categorie del pop e del jazz di quegli anni. In Ready to begin again, “pronta a ricominciare”, Peggy Lee parla di un personaggio che “tiene i denti in un bicchiere accanto al letto e i capelli da qualche parte in un armadio”. “Il mondo non è più un bel posto”, canta, ma poi si fa coraggio: s’infila la dentiera, si aggiusta la parrucca in testa e via, altra giostra altro giro. In Some cats know usa un gergo da blues woman sboccata degli anni trenta per spiegare che ci sono uomini (cats) che sanno fare l’amore come si deve e altri che è meglio lasciar perdere. A little white ship è un pezzo quasi psichedelico nel suo narcotico stupore: la piccola barca bianca del titolo è un letto, con lenzuola pulite e soffici cuscini, pronta a partire per attraversare la notte. Leiber e Stoller hanno scritto la canzone espressamente per lei che passava intere giornate a letto, truccata e pettinata: come certe dame del settecento riceveva visite a letto, fumando, telefonando e sbrigando la corrispondenza.
In Tango, una sorta di suite strumentale, con un lungo parlato e, solo alla fine, una canzone, Peggy Lee usa il ballo argentino come metafora di una relazione sadomasochistica tra uomo e donna. Immagina di spezzarsi tra le braccia di un uomo muscoloso e tatuato. The case of M.J. è una sorta di caso clinico, la storia dei traumi rimossi di una bambina maltrattata: Leiber e Stoller la scrivono quasi per dispetto a Peggy Lee che si è sempre dichiarata contraria alla psicanalisi, eppure lei la capisce e la canta in quel suo modo distaccato, protetta da una corazza d’ironia che sembra sempre sul punto di squarciarsi. In Professor Hauptmann’s performing dogs, forse la canzone più bizzarra del disco, Peggy diventa la presentatrice di un circo. Accorrete signore e signori, declama nel megafono, ad ammirare i cani ammaestrati che hanno stupito l’Europa. E parte con la descrizione di una microsocietà canina in cui ognuno ha il suo ruolo e obbedisce docile ai comandi dell’addestratore. “Per il gran finale”, annuncia Peggy Lee con voce stentorea, “questi meravigliosi bastardelli supereranno loro stessi. Questi cani incomparabili, dal vivo davanti ai vostri occhi, interpreteranno solo per voi lo spirito del 1976: marceranno con stivali sulle zampe, spalla a spalla, si spareranno tra loro e moriranno proprio come gli esseri umani”.
Mirrors è un album surreale, malinconico, esilarante e assurdo, forse la prova suprema di Peggy Lee come interprete. È un lavoro fuori dalle mode che non fu capito e fu considerato un grottesco esercizio di autocompiacimento. In buona parte lo è, ma è anche una meditazione sull’invecchiamento non sempre gradevole di una popstar. Ed è soprattutto un testamento spirituale per le sue epigone come Madonna, anche lei impegnata in questi anni nel titanico, a volte grottesco lavoro d’invecchiare sotto i riflettori.
Peggy Lee
Mirrors
A&M, 1975