Quando Tricky era quasi dio
All’inizio del 1996 sul rapper e produttore britannico Adrian Thaws (Tricky) pesano molte aspettative. Pioniere della scena trip hop di Bristol insieme a Massive Attack e Portishead, aveva avuto un grande successo con l’album di debutto, Maxinquaye, un lavoro che ha definito un genere. Maxinquaye era fondamentalmente un disco hip hop rallentato, innervato di dub e reggae, in cui s’intrecciavano la sua voce e quella della sua collaboratrice e alter ego Martina Topley-Bird. Era un album introspettivo e avvolgente, a metà strada tra il dub propulsivo dei Massive Attack e il soul minimale, fuori dal tempo dei Portishead. Quella di Tricky era la terza via del trip hop e pubblico e critica avevano apprezzato.
A rendere particolarmente interessante quel lavoro è una sorta di precarietà data dall’assenza di una voce solista ben definita. Se i Portishead poggiano sul timbro dolente e inconfondibile di Beth Gibbons e i Massive Attack usano le voci altrettanto memorabili di Shara Nelson, Tracey Thorn e del veterano del reggae Horace Andy, Tricky e Martina giocano a nascondino, si lasciano e si ritrovano e alla fine si fondono in un’unica voce androgina e senza età. Maxinquaye è la musica di un produttore artista sempre indeciso se esserci o sparire, di un rapper maschio pronto a dissolversi nella voce di un suo doppio femmina.
Con il secondo album Tricky sparisce e tradisce tutte le aspettative di chi lo voleva artista pop di successo. Il contratto con la Island gli permette di uscire, una volta l’anno, con un disco firmato con un nome diverso e lui, nel suo momento di massima visibilità, decide di non chiamarsi più Tricky ma Nearly God (“quasi dio”) e di far uscire una serie di demo molto ruvidi e dissonanti, cantati da una gran quantità di ospiti. Non gli basta più nascondersi dietro a Martina Topley-Bird, vuole frammentarsi ulteriormente e fa cantare Terry Hall, Neneh Cherry, Alison Moyet, Cath Coffey e Björk. I suoi mezzi produttivi sono ridotti all’osso, ma la lista delle voci è lunghissima. In altri contesti sarebbero ospiti di lusso, ma in Nearly God sono artisti che si fanno possedere da un vudù e, pur mantenendo la loro voce ben riconoscibile, diventano un veicolo per la visione oscura e crepuscolare di Tricky.
Nearly God si apre con Tattoo, la cover di un pezzo particolarmente oscuro di Siouxsie and the Banshees. L’originale era uscito nel 1983 come b-side del singolo Dear Prudence ed era volutamente stridente rispetto alla rilettura del classico dei Beatles che si trovava sul lato a. Tattoo era stata prodotta con tecniche di loop e campionamenti molto simili a quelle che Tricky avrebbe affinato più di dieci anni dopo e suonava come una sorta di mantra stregonesco appena sussurrato dalla voce di Siouxsie: “Qualcosa di feroce lungo la spina dorsale per spaventare i pazzi che m’inseguono… fortifico le braccia con intrecci serpentini”. Tricky ripete quella formula magica, la sua voce quasi in trance: “Uno schiaffo sulla coscia, uno sul polpaccio, canta il tuo mantra e lascia il segno”. E il segno, con questo primo pezzo, Tricky lo lascia eccome: salda le tecniche di produzione del primo hip hop (la musica che lo aveva formato) con le atmosfere gotiche del post punk. Ma dalle brume dell’Inghilterra postindustriale sposta il pezzo di Siouxsie and the Banshees in un’atmosfera da allucinato e claustrofobico rituale haitiano.
Difficoltà a respirare, il cielo che ti si chiude sulla testa… l’atmosfera di Nearly God sembra evocare, in diversi momenti, i primi sintomi di un attacco di panico e la musica è un mantra magico da ripetersi per non cadere nel buco nero.
Poems, un trio tra Tricky, Martina Topley-Bird e Terry Hall, è l’unico singolo che la Island riesce a tirare fuori da questa operazione, forse perché è l’unico pezzo da cui sembra aprirsi uno squarcio di luce. Anche qui le voci si confondono e s’intrecciano in un mix stratificato e complesso che riesce comunque a sembrare lo scheletro di una canzone pop.
La rapper e popstar anglo-svedese Neneh Cherry presta la sua voce a Together now, un pezzo hip hop sporcato di rock e di chitarre elettriche, forse la cosa più completa e formata di questo album così sghembo e instabile; un suono che lei si porterà dietro in un paio di suoi singoli di quel periodo, Kootchi e Feel it.
Björk, all’epoca all’apice della sua carriera di artista pop sperimentale, appare in due momenti: Keep your mouth shut e Yoga. Nella prima è una presenza angelica che fa da contrappunto a un violento rantolo di Tricky che le intima di chiudere il becco. La seconda è un’improvvisazione vocale in cui, su un groove campionato, si ripropone l’idea dell’incomunicabilità tra le due voci: Björk vocalizza mentre Tricky farfuglia cose incomprensibili. I due sembrano dividersi uno spazio angusto parlando lingue diverse.
Alison Moyet, con la sua voce ruvida e corposa, dà un’impronta blues a Make a change, un pezzo che ha l’incedere di una marcia da funerale di New Orleans.
Black coffee è una cover del classico jazz-blues di Paul Francis Webster e Sonny Burke reso famoso da Sarah Vaughan e da Peggy Lee. La voce assente di Martina Topley-Bird trasforma uno standard della fine degli anni quaranta sull’attesa e la solitudine nell’incubo di una persona intrappolata in un k-hole, quello stato allucinato di dormiveglia descritto da molti utilizzatori di ketamina. Ancora quel retrogusto di ruggine in bocca e quella sensazione da prodromi di un attacco di panico: “Parlo con le ombre dall’una di notte alle quattro”, recita Martina con voce impastata, “una donna nata per piangere e struggersi, per restare a casa accanto al forno ad annegare i dispiaceri passati nel caffè e nelle sigarette”. Il dettaglio della donna sola e depressa accanto al forno ricorda il suicidio della poeta Sylvia Plath (che si uccise nel 1963 proprio infilando la testa nel forno a gas dopo aver sigillato la porta della cucina con giornali e stracci). Black coffee era stata scritta nel 1948, parecchio tempo prima della morte di Plath, ma la voce stordita di Martina, quasi cinquant’anni dopo, sembra indicarci la possibilità di una fine analoga.
La versione statunitense del cd Nearly God finisce con due cover che svelano le intenzioni stilistiche di Tricky: una rilettura di Judas dei Depeche Mode e una di Children’s story del pioniere del rap Slick Rick. L’intenzione di Nearly God è quella di saldare new wave e synth pop britannici con l’hip hop sperimentale e autoprodotto delle origini. Come pratica sia artistica sia estetica. Un’operazione tutt’altro che peregrina, visto che una delle più grandi popstar di oggi, il canadese The Weeknd, fa esattamente la stessa cosa, solo in modo più asciutto e accessibile.
In un’intervista a Vice del 2016, proprio per il decennale di Nearly God, Tricky lo spiega chiaramente (per quanto chiaro possa essere Tricky): “Per un certo periodo ho vissuto a Los Angeles e ho conosciuto questi tizi messicani che erano fissati con i Cure. Di solito ascoltavano la loro roba gangsta, ma in macchina si sparavano i Cure. Robert Smith non se lo sarebbe mai immaginato. È pazzesco quanto la musica possa trascendere. Hai presente lo stereotipo, no? Questi tizi messicani del ghetto ascoltano solo hip hop a palla. E invece no, in macchina Cure e Depeche Mode”. E poi, in modo più specifico, spiega qual è stato il ruolo dell’hip hop nella sua formazione artistica: “Il rock mi è sempre piaciuto, roba tipo gli Specials o le Breeders, ma è stato l’hip hop a farmi capire che potevo fare musica. Vedevo Prince alla tv o lo sentivo alla radio, ma sapevo che non sarei mai riuscito a fare quello che faceva lui. Sono un tipo normale di un quartiere qualsiasi. Non so suonare tutti gli strumenti che suona Prince e non so ballare come lui. Quando ho sentito per la prima volta Slick Rick e Rakim, e anche gli Specials, mi sono detto: ecco, questo posso farlo anch’io. Terry Hall, Rakim e Slick Rick erano persone normali che hanno saputo cogliere un’opportunità. L’hip hop mi ha fatto capire che potevo farlo anche io”.
Nearly God
Nearly God
Island, 1996