Siouxsie graffia ancora
“Ora però chiudete il becco e ascoltate!” ringhia ai fan una Siouxsie Sioux rediviva che, dopo più di dieci anni di lontananza dalle scene, torna a esibirsi in pubblico senza nulla di nuovo da promuovere se non la sua stessa leggenda. Chi si aspettava una Siouxsie ultrasessantenne addomesticata, con le sue sneakers comode sotto l’abito pantalone di lamé disegnatole dall’amica Pam Hogg, si è trovato davanti un po’ a sorpresa la diva post-punk di sempre: visceralmente generosa, scontrosa e sempre precariamente in bilico sul ciglio del disastro. Ogni concerto di Siouxsie che ho visto (con i Banshees, con i Creatures o da sola) ha sempre avuto un attimo di tensione con il pubblico.
La ricordo al Palacisalfa di Roma, nel 1999, che nel mezzo di un pezzo dei Creatures ha interrotto tutto per andare a picchiare un tizio che le aveva alzato davanti il dito medio pensando di fare qualcosa di molto punk. Il suo compagno di vita e sodale artistico di allora, Budgie, l’aveva afferrata per il vestito subito prima che si gettasse tra la folla brandendo l’asta del microfono. I decenni passano, puoi fare tutte le svolte pop e commerciali che vuoi, puoi fare una canzone per un film di Batman ed essere invitata alla settimana della moda di Milano, ma se, come lei, eri una ragazzina a Londra nell’anno zero del punk, qualcosa di storto, una scheggia di rabbia ti rimane dentro per forza. Ed è proprio quella scheggia di “‘fanculo tutti” che ogni tanto s’intravede ancora tra le movenze da diva del muto e gli sbrilluccichii di lamé a rendere una serata con Siouxsie qualcosa di ancora indimenticabile e prezioso.
Il pubblico del teatro degli Arcimboldi che ha mandato esaurita la data italiana in 24 ore ha un’età media alta, a occhio direi tra i cinquanta e i sessanta. In molti hanno ancora le vecchie T-shirt dei Banshees con la stella di David, magari distrutte e tenute insieme con le spille da balia o le magliette di altri gruppi classicamente darkettoni come Bauhaus, Sisters of Mercy e Christian Death. Ho intravisto anche una maglietta dei Kraftwerk, una camicia piena di toppe dei Joy Division e un tatuaggio dei Love and Rockets che mi hanno ricordato cosa voleva dire essere fan di qualcosa prima dei social network e prima che tutta la musica del mondo fosse a disposizione sui telefoni. Ci si riconosceva fuori da casa, soprattutto ai concerti, nei locali e nei negozi di dischi il sabato pomeriggio. La musica era un trofeo: ci si svenava per averla, si rubava, si scambiava. E anche le piaghe sulle caviglie che venivano per le Doc Martens dure e strette come stivaletti malesi erano un segno di appartenenza, erano in qualche modo tracce fisiche della musica che si ascoltava.
Siouxsie fa quello che fanno le vere dive: distrae, incita, provoca
Il pubblico di Siouxsie non è lì a celebrare la nostalgia dei vent’anni, almeno non solo, ma quella sensazione della presenza della musica nella vita, qualcosa che tocchi e vivi ogni giorno e non un servizio erogato da una qualche piattaforma svedese. E soprattutto c’è la celebrazione di una figura carismatica come Siouxsie, passata indenne attraverso punk, post-punk, new wave, sperimentazioni dance e pop rimanendo sempre fedele a se stessa. Il suo carisma è la cosa più vintage ma tangibile della serata: Siouxsie non vende scarpe o borse, non ha una presenza sui social (le sue ultime interazioni on line con i fan risalgono al messageboard dei Creatures alla fine degli anni novanta); è una donna di 65 anni che è stata lontana dalle scene per più di dieci anni. Eppure quando sulle note di Nightshift, una ballata dark su Jack lo squartatore, si apre il sipario non può che essere lei che aspetta “le sue sorelle del turno di notte” come se fosse ancora il 1981. E la sua presenza, la sua voce, bastano a riportarci, più che ai nostri quindici o vent’anni, a quella sensazione della musica come qualcosa di fisico, di presente, un oggetto che occupa uno spazio nella nostra vita e non un flusso continuo dettato da un algoritmo.
La scaletta del concerto è un compromesso: è praticamente un greatest hits show con dentro qualche piccola sorpresa per i fan più accaniti. Accanto alla celebrazione di fasti post-punk (ci sono ben quattro pezzi di Juju, l’album che nel 1981 definì il suono di Siouxsie and the Banshees), ci sono i pezzi più recenti tratti da Mantaray, il suo primo e unico album solista del 2007 e un solo pezzo legato ai suoi anni più sperimentali con l’ex marito Budgie nel duo The Creatures (la bellissima But not them). Con gli anni Siouxsie ha cambiato voce, è diventata più roca e cavernosa, ma il suo modo di cantare rimane quello di sempre: aggredire fisicamente la canzone fino a sottometterla con qualunque mezzo.
Non si va a un concerto di Siouxsie per sentirla cantare bene: ci si va per sentirla affrontare i suoi stessi pezzi armata da un microfono (rigorosamente col filo) che nel corso della performance diventa frusta, cappio o corda per chissà quale oscura pratica shibari. Quando le cose funzionano è bello sentire una canzone che si sottomette docile al volere della sua autrice (anche l’impervia e fascinosa Face to face), quando le cose vocalmente funzionano meno (Cities in dust, Arabian knights) Siouxsie fa quello che fanno le vere dive: distrae, incita, provoca; quello che non riesce a fare con la voce lo fa con il viso, con gli occhi, con le mani. Tra le sorprese della scaletta c’è una lunga e fiammeggiante Lands end, una traccia dimenticata dall’album Tinderbox del 1986 che Siouxsie riprende con gusto, mentre dietro di lei, su uno schermo, vediamo un mare in tempesta che sembra uscito da una battaglia navale del seicento. Forse l’unico visual riuscito di un concerto in cui si poteva serenamente fare a meno di videoproiezioni.
I pezzi più riusciti sono i più recenti, evidentemente tarati sulla voce scura e matura della Siouxsie di oggi e quelli con gli arrangiamenti più scarni (But not them), i meno riusciti sono i pezzi pop dei primi anni novanta (Kiss them for me) in cui tutte le sottigliezze della produzione elettronica di Stephen Hague si perdono per strada. Quando Siouxsie arriva eroicamente al finale, una trascinante cover di The passenger di Iggy Pop, non ha praticamente più voce, ma non ne ha più bisogno: la canzone è sua come suo è il pubblico tutto in piedi che la saluta e la acclama. Mancano Hong Kong garden e Peek-a-boo che Siouxsie aveva cantato come bis nel concerto precedente, ad Amsterdam. Milano era la terza data di questo minitour e Siouxsie e la sua nuova band stanno evidentemente ancora misurando le loro forze.
La mia riflessione finale, dopo aver visto nei decenni diversi concerti di Siouxsie, è che lei ha bisogno di avversari sulla scena. Questa band, più che dignitosa, non ha al suo interno personalità forti come Steven Severin dei Banshees, o Robert Smith (che suonò brevemente con i Banshees a inizio anni ottanta), o Budgie con cui lei aveva anche una relazione. Siouxsie stasera è quasi troppo a suo agio nel suo duplice ruolo di diva e di band leader: manca quell’elettricità, quel senso di sfida che lei ha sempre avuto con i suoi compagni. Siouxsie sul palco è litigiosa e provocatoria sia con il pubblico sia con chi è sul palco con lei, e stasera questa frizione così vitale per la riuscita dei suoi spettacoli è ridotta al minimo. È anche vero però che Siouxsie, a 65 anni, si è guadagnata tutto il diritto di sentirsi in pace con se stessa, con la sua musica e con i suoi fan e di presentarsi al pubblico come meglio crede e quindi alla fine ha ragione lei quando ci dice: “Ora però zitti e ascoltate”.