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La lingua segreta dei Bee Gees

La foto dei Bee Gees usata per presentare l’album Trafalgar.

Nel 1970, mentre lavoravano a Trafalgar, il loro settimo album (il nono se si contano i primi due usciti solo nel mercato australiano), i Bee Gees avevano da poco ripreso a parlarsi dopo una drammatica crisi artistica e umana. I fratelli Barry, Robin e Maurice Gibb avevano rispettivamente 24 e 21 anni (Maurice e Robin, morti rispettivamente nel 2003 e nel 2012, erano gemelli). Nati nell’isola di Man (un territorio semi-indipendente tra Irlanda e Regno Unito) in una famiglia piuttosto povera, i tre fratelli hanno dimostrato presto di essere molto portati per la musica e per il canto.

Emigrati in Australia con i genitori cominciano faticosamente a farsi conoscere come cantanti, sul finire degli anni cinquanta, in un territorio tanto immenso quanto marginale. Sono ancora bambini, ma hanno una modalità quasi telepatica di intonare e armonizzare le voci. I loro modelli sono gli Everly brothers e i Beach boys che ascoltano alla radio. L’Australia per dei giovanissimi e promettenti autori e interpreti pop si dimostra una piazza difficile, troppo provinciale e spezzettata in microscene locali incapaci di incoraggiare, anche economicamente, il loro talento. Nel gennaio del 1967 la famiglia Gibb decide di tornare nel Regno Unito anche, e soprattutto, per dare una possibilità ai ragazzi: proprio mentre sono sulla nave che li riporta nella madrepatria (gli emigranti attraversavano ancora il mondo in piroscafo) gli arriva la notizia che la loro canzone Spicks and specks era finalmente un successo in Australia. Troppo tardi e la decisone era presa: i Bee Gees dovranno ricominciare da zero nel Regno Unito. Hugh Gibb, il padre dei ragazzi, manda alcuni demo a Brian Epstein, il potentissimo manager dei Beatles che li passa al collega Robert Stigwood (1934-2016), australiano di nascita, che gli farà firmare un contratto di cinque anni con la Polydor, rimanendo praticamente per sempre il loro manager. Se Epstein era già potente lo sarebbe diventato anche Stigwood: come produttore cinematografico avrebbe firmato successi come La febbre del sabato sera (legato indissolubilmente alla musica dei Bee Gees) e Grease.

Ambizione, droga e litigi
I Bee Gees della fine degli anni sessanta sono qualcosa di unico e difficilmente afferrabile: hanno un senso della melodia che li rende indubbiamente pop, hanno però anche un tocco surreale e psichedelico e un’ambizione nella composizione dei pezzi che li porta vicini ad alcune soluzioni di quello che all’inizio del decennio successivo sarebbe definito progressive rock. Il loro doppio lp Odessa, del 1968, era un concept album tanto ambizioso che quando fece fiasco creò tra i fratelli frizioni e litigi. Dall’Australia Barry, Robin e Maurice si portano dietro una sorta di ingenuità che è la loro grande forza: sia che i loro pezzi avessero successo sia che non ne avessero, loro sembravano sempre sradicati dall’attualità delle classifiche e delle mode. Nei testi a volte sembravano usare l’inglese come una seconda lingua, ma con risultati molto diversi da quelli un po’ stucchevoli degli Abba che effettivamente non erano anglofoni. Tra piccoli errori e un uso molto libero di alcuni vocaboli, il loro testi avevano sempre qualcosa di criptico che rafforzava l’idea di un terzetto di fratelli che comunicavano tra loro su un livello diverso da quello dei comuni mortali.

All’inizio i Bee Gees venivano venduti da Stigwood come i Beatles del futuro. Erano in effetti loro grandi fan e soprattutto all’inizio ne erano molto influenzati, ma avevano qualcosa di diverso, qualcosa che sfuggiva al loro stesso controllo, una sorta di disagio interiore mai pienamente espresso che forse veniva proprio dal loro essere fratelli all’interno di una famiglia, come si direbbe oggi, altamente disfunzionale. I Gibb usavano la musica per comunicare stati d’animo che non erano stati educati a esprimere in altri modi. E quando nell’equazione sono entrati i soldi, il successo e le ambizioni qualcosa è inevitabilmente saltato e nel 1969 i Bee Gees, già piuttosto famosi, hanno annunciato il loro scioglimento. Un anno prima dei Beatles.

Bee Gees, How can you mend a broken heart, 1971


Discutendo dei Bee Gees con l’amico Richard McKenna del collettivo We are the mutants lui mi ha detto che in sostanza la loro vita è riassumibile in “Barry era la materia, Robin l’anima e Maurice una sorta di spirito santo che mediava tra i due”. Barry Gibb era il fratello più grande, il capobanda, quello che si prendeva cura dei fratelli più piccoli nella fredda e umida Manchester degli anni cinquanta, mentre i genitori facevano fatica anche a pagare il riscaldamento. Barry era quello bello, il primo a cambiare voce mentre i gemelli erano ancora due bambinetti; era lui la popstar di casa. Robin era romantico, chiuso, un poeta; un amante dei drammi in costume e della vecchia Inghilterra vittoriana e perennemente in conflitto col fratello maggiore. Un ragazzo fortemente traumatizzato da un incidente ferroviario (il famoso disastro di Hither Green del 1967) in cui si trovò coinvolto a 17 anni con Molly Hullis, la sua futura moglie. Molly e Robin sopravvissero allo scontro che causò 49 morti; anzi aiutarono, ancora tremanti e sanguinanti, a tirare fuori gente morta e viva dalla lamiere. Alla fine degli anni sessanta non c’era la sensibilità di assistere psicologicamente i sopravvissuti dei disastri: dovevano ritenersi fortunati e basta. Robin dal giorno di quell’incidente non sarà più lo stesso. Anche e soprattutto nei rapporti con i fratelli. Maurice, ottimo tastierista e arrangiatore, era il tessuto connettivo tra i due, l’eterno mediatore e forse quello che, silenziosamente, pagava il prezzo più alto.

Fuori sincrono
A complicare le cose c’era anche l’abuso di sostanze: Barry usava cocaina, Robin anfetamine e tranquillanti e Maurice era alcolista. La loro comunicazione non verbale e musicale era più forte che mai ma, come nota Bob Stanley nella sua monografia Bee Gees, children of the world, era “fuori sincrono”. E Trafalgar, con la sua strana, malinconica bellezza è la testimonianza di questa comunicazione difficile e disturbata. A cominciare dalla copertina: una rappresentazione della battaglia navale di Trafalgar, quella in cui nel 1805 la marina britannica guidata dall’ammiraglio Nelson sconfisse in modo spettacolare la flotta franco-spagnola; nel cielo, come nelle scene di battaglie navali del cinquecento, svolazza un cartiglio con la scritta “Bee Gees Trafalgar”. Il tour legato all’album veniva pubblicizzato con una fotografia che sembrava uscita da uno sceneggiato in costume della Bbc: Barry in alta uniforme, ma con una sciarpa di seta al collo ancora molto hippy, è un eroe romantico ferito e sorretto da Robin. Intorno a loro il resto della band in uniformi gallonate e feluche e per terra, accartocciate, si vedono diverse mappe militari.

Una delle prime canzoni che vengono registrate quando Barry e Robin ricominciano a parlarsi è anche il primo pezzo dei Bee Gees che andrà al numero uno in classifica negli Stati Uniti. How can you mend a broken heart è anche una delle canzoni più belle dell’intera produzione del gruppo e Barry e Robin la completano in meno di un’ora. È una ballata country molto misurata a cui, nel ritornello, viene aggiunto il turbo che li porta al numero uno in classifica: l’armonizzazione irresistibile delle due voci. La canzone era stata pensata per Andy Williams, il crooner che dieci anni prima cantò Moon river, ma alla fine se la tennero i fratelli Gibb. How can you mend a broken heart fu ripresa in modo memorabile dal cantante soul Al Green nel suo album Let’s stay together l’anno dopo. Questa appropriazione è importante perché indica non solo quanto i Bee Gees fossero attenti al mondo del soul e dell’rnb ma quanto quest’attenzione fosse ricambiata. Il falsetto impeccabile ma appena rotto dall’emozione di Al Green è quasi una premonizione della voce del Barry Gibb dei megasuccessi disco e rnb della fine degli anni settanta. La fase più propriamente rnb della carriera dei Bee Gees, quella che poi sarebbe sfociata nella disco che avrebbe fagocitato agli occhi del grande pubblico la loro intera produzione, aveva in realtà radici molto solide.

Fardello psicologico
Israel, una composizione di Barry Gibb completamente apolitica e dal testo confuso e surreale è stata descritta come “una canzone d’amore dedicata allo stato d’Israele”. Per quanto bizzarra e sempre più drammatica man mano che si avvita nel finale, Israel resta però molto efficace come melodia pop: ai Bee Gees di quel periodo non riusciva proprio di scrivere un pezzo debole. Man mano che l’album prende quota si capisce che fardello psicologico i fratelli Gibb debbano metabolizzare in queste canzoni: Trafalgar è un album grigio e nebbioso, pieno di spifferi e di umidità e le caratteristiche, splendide melodie a più voci che pervadono tutto l’album sembrano un modo per stringersi e riscaldarsi a vicenda.

The greatest man in the world è un altro pezzo memorabile che sembra sempre sul punto di aprirsi su un ritornello enorme ma invece resta lì a galleggiare a mezz’aria, sostenuto da un morbido cuscino di archi: Barry può perfino permettersi una frase banale come “sarei l’uomo più grande del mondo perché posso dire di avere la ragazza più grande”. Nota a margine: è interessante come in questo album convivano ancora le parole “girl” (ragazza) e “woman” (donna) per indicare l’oggetto delle proprie attenzioni romantiche. Il più maturo Barry solitamente canta per una “woman” mentre il romantico Robin tende ancora a scrivere per una “girl”, ma spesso i ruoli si invertono. Nella sconsolata Remembering, per esempio, Robin ricorda una donna del suo passato che un tempo era tutta la sua vita e che lasciandolo lo fa sentire “as good as he was dead”, come morto. L’esempio forse più evidente dell’inglese antiquato e opaco dei testi dei Bee Gees. Le immagini assurde si susseguono in Trafalgar: in Somebody stop the music Barry e Maurice implorano l’orchestra di fermare la musica per “incoronare il clown con il palloncino rosso”. Eppure ancora una volta è la musica a farci sospendere il giudizio: una linea di basso serpentina ci trascina verso l’ennesimo ritornello memorabile.

Ritorno a Waterloo
Trafalgar, la canzone che dà il titolo all’album, è anche quella che smonta l’iconografia imperiale e guerresca della copertina ed è l’unica composizione interamente di Maurice che, candidamente, racconta che è una canzone su un tizio tutto solo che dà da mangiare ai piccioni a Trafalgar square. Trafalgar è una canzone sulla solitudine dell’outsider che diventa invisibile nella folla: “Ho bisogno di qualcuno che mi conosca”, canta la voce solista di Barry, più fragile e sconsolata che mai. Ma il vero colpo di teatro arriva alla fine: Walking back to Waterloo (scritta dai tre i fratelli Gibb insieme) torna a giocare ambiguamente con i nomi dei luoghi delle sconfitte napoleoniche e concentra in un solo pezzo i diversi temi dell’album: solitudine, incomunicabilità e soprattutto il bisogno di un altrove in cui rifugiarsi, non si capisce bene se indietro nel tempo o nel futuro. La canzone svela definitivamente che la battaglia navale in copertina è un’illustrazione da vecchio libro di scuola e che i costumi ottocenteschi, con i loro galloni e le loro feluche, sono polverosi avanzi di guardaroba teatrale.

Trafalgar forse non è un vero classico, ma racconta uno snodo decisivo nella carriera e nella psiche di uno dei gruppi più influenti della storia della musica pop. Riascoltare oggi Trafalgar ci mostra chiaramente che i suoi autori sarebbero stati gli unici al mondo a potersi permettere un successo planetario con una canzone disco intitolata “Tragedia”.

Bee Gees
Trafalgar
Polydor, 1971

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