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La metamorfosi di Sade 

Sade all’arena di Wembley a Londra, Regno Unito, il 21 novembre 1988. (Terry Lott, Sony Music Archive/Getty Images)

A metà anni ottanta Sade, la band pop-jazz britannica formata dalla cantante anglonigeriana Sade Folasade Adu con Paul Denman, Andrew Hale e Stuart Matthewman, aveva un enorme successo, sia in Europa sia negli Stati Uniti. Sade, come Blondie, è una band, ma tutta l’attenzione del pubblico e dei mezzi d’informazione era ed è tutt’oggi calamitata dalla misteriosa e carismatica presenza della loro cantante, che diventò uno dei volti del decennio quando comparve di profilo, come la regina sulle monete, sulla copertina di Time magazine nell’aprile del 1986.

Il successo di Sade non conosceva confini, ma a differenza di altri artisti pop di quel periodo, che comparivano ovunque e cambiavano look e suono con velocità vertiginosa, Sade e la sua band rimanevano sempre fedeli alla loro formula: un soft jazz che sconfinava nel pop sofisticato, un look patinato ma mai chiassoso o provocante e una generale aria di coolness e distacco britannico. Facevano pochissime interviste, nessuna vita mondana e nessuna concessione ai paparazzi.

Sade Adu in particolare è sempre stata una popstar riluttante: in quarant’anni di carriera non ha mai svelato nulla della sua vita privata e ha centellinato la sua immagine con la protervia di una Greta Garbo. Era difficile definire chi fosse e da dove venisse Sade: il padre era un economista nigeriano, un accademico, la madre un’infermiera britannica. Fino ai tre anni Sade è vissuta a Lagos ma, alla separazione dei genitori, ha vissuto con la madre e il fratello nell’Essex. A 18 anni si è trasferita a Londra per studiare moda alla St. Martin’s School of Art, un istituto che nella sua storia ha fatto uscire talenti dell’arte (Gilbert and George, Eduardo Paolozzi), della moda (John Galliano) ma soprattutto dell’intrattenimento (oltre a Sade, Glen Matlock dei Sex Pistols e gli attori John Hurt e Pierce Brosnan). Sade stessa, in un’intervista del 2012 al mensile della borghesia afroamericana Ebony diceva: “Sono sempre stata incatalogabile dal punto di vista della classe sociale in Inghilterra, è difficile lì classificare le persone nate da matrimoni misti. In Nigeria non esiste una struttura di classe, c’è una struttura tribale e il prestigio è dato dai soldi che si hanno”.

Quindi Sade era, agli occhi del pubblico britannico ossessionato dalla classe sociale e dalla provenienza, una specie di ufo e ancora di più lo era per gli americani che la vedevano come una sorta di regina nubiana arrivata da un’Europa sofisticata e irraggiungibile. Sade, rimanendo quasi sempre in silenzio (la sua voce quando parla è molto scura e profonda e tradisce la provenienza britannica), non faceva che alimentare il mito esotico di un’irraggiungibile regina del pop.

Musica per yuppie
I primi due album, Diamond life (1984) e Promise (1985) avevano fatto di Sade una star mondiale. Your love is king, Smooth operator e The sweetest taboo erano state hit che sgomitavano con quelle di Madonna, Prince e Michael Jackson per i primi posti in classifica. La diffusione di massa del compact disc, allora un supporto nuovo e costoso, favoriva artisti più orientati sull’adult contemporary che sul pop come Sade che, suo malgrado, diventò un simbolo dei gusti degli yuppie degli anni ottanta.

Sul finire del decennio, dunque, era arrivato il momento di smarcarsi e cambiare suono. Nel 1988 la maggior parte degli artisti che erano usciti dalla vivace scena pop-jazz e pop-soul di Londra erano o scomparsi (Carmel) o avevano cambiato direzione (Style Council, Fine Young Cannibals) e anche Sade e i suoi hanno cominciato a ragionare su una exit strategy stilistica per uscire dai dorati ma sempre più fangosi e appiccicosi anni ottanta.

Sade, Love is stronger than pride (1988), regia di Sophie Muller


Quando nel marzo del 1988 uscì il singolo Love is stronger than pride, con un elegante video diretto da Sophie Muller, la musica era cambiata e gli anni ottanta del lounge pop da ascoltare in un’appartamento tutto specchi e cromature alla American gigolo erano finiti. Anzitutto dalla musica di Sade scompaiono quasi del tutto gli ottoni (niente sax e niente trombe) e anche la forma canzone, solidissima in Promise e Diamond life, diventa sempre più diafana, quasi rarefatta. Love is stronger than pride è più un groove che una canzone: è ariosa, piena di spazi aperti e sostenuta da percussioni discrete e da una chitarra spagnola pizzicata. La produzione è completamente cambiata: se prima la musica di Sade ricordava il velluto e le atmosfere fumose di un jazz club, ora è un velo impalpabile, una mussola di cotone leggerissima mossa dalla brezza in un tramonto d’estate. Rispetto a pezzi opulenti come Is it a crime o Jezebel, Love is stronger than pride poteva sembrare minimale: in realtà è tutt’altro. C’è molto dettaglio, soprattutto nel modo in cui i suoni sono mixati (in particolare la voce, sussurrata ma sempre in primo piano) e su come l’elettronica (una tastiera che ha qualcosa della musica new age, che all’epoca furoreggiava) si mescola a elementi acustici (flauto e chitarra).

Come in una bolla
Nel video Sade si rotola nella sabbia con un abito in velluto rosso e sembra persa in un sogno a occhi aperti. “Ho provato a odiarti ma non ci riesco”, canta con aria assorta, “l’amore è più forte dell’orgoglio”. Quando questa rêverie finisce, lei è in jeans e bomber con il cappuccio di pelo, un look che più fine anni ottanta non si può, circondata dalla sua band che l’aiuta a rialzarsi dalla sabbia e a correre con loro sulla battigia. Oltre alla bellezza e alla ricchezza della produzione colpisce la distanza di Sade da ciò che canta. L’asciuttezza del suono ha portato a un’ulteriore accentuazione della coolness della cantante. La vedette da jazz club londinese, impeccabile nei suoi abiti da sera e pettinata come Billie Holiday, ora sembra cantare da una distanza siderale: “Ground control to major Tom”, ci sentite?

In tutto l’album Stronger than pride – il terzo lp di Sade, uscito nel maggio del 1988 – ricorre questa caratteristica: parole romantiche, anche struggenti, quasi sussurrate in una bolla di splendida solitudine. Difficile pensare che Sade stia pensando a una persona in carne e ossa: per lei l’amore è una forma di ascesi, di meditazione, di ricerca dentro se stessa, forse un atto di estremo amore di sé, o di vanità. Questo amore che è più forte dell’orgoglio è tutto dentro di lei e all’inizio degli anni novanta, con il suo quarto album che traghetterà il suo nuovo suono ormai consolidato nei decenni a venire, diventerà Love deluxe, un amore di lusso.

Coolness, distanza e ironia
Tutta questa distanza tra Sade e l’amore di cui va cantando ha qualcosa d’ironico e di amaro: quella dell’osservazione distaccata è un’arte di cui Sade è maestra. E le canzoni di Stronger than pride, tutte più basate sul groove che sulla melodia o sulla classica alternanza strofa, bridge e ritornello, non fanno che aumentare questo senso di levitazione sulle cose banali del nostro mondo.

Paradise è un pezzo davvero minimale, percussioni e un’irresistibile linea di basso con una tastiera a fare da contrappunto, in attesa che la voce estatica di Sade si accomodi placidamente sul groove. Ancora una volta lei sembra altrove: parla di un paradiso che neanche riesce a vedere abbagliata da qualcos’altro, probabilmente da se stessa, dalla propria voce. In Turn my back on you (soprattutto nella versione remixata per il video) troviamo qualcosa di molto simile a una base hip-hop: Sade cerca un suono più contemporaneo ma sempre senza sporcarsi. L’eccezionalità di questo album di passaggio è quello di rimanere al passo con i tempi senza farlo vedere.

Le ballad in Stronger than pride sono poche ma sono memorabili e si discostano con decisone dal canone della ballata soul o jazz. Haunted, a tutt’oggi una delle canzoni più belle nel repertorio di Sade, è tutta costruita su un piano e su una chitarra spagnola pizzicata. In questo pezzo si capisce come la freddezza e la distanza di Sade siano un trucco: quando canta ci attacchiamo a ogni sillaba e ogni piccola incrinazione della sua voce di cristallo sembra una confessione di umanità, un involontario slittamento che solo noi che l’amiamo davvero possiamo percepire. E a questo punto Sade si può anche permettere una coda in cui entra anche il sax, lo strumento che sembrava bandito dai pezzi di Stronger than pride, quasi una concessione al suono che l’aveva resa una star.

Un manuale di longevità artistica
Stronger than pride è un album che andrebbe studiato da qualunque artista che ambisca a una carriera lunga. Arriva un momento in cui il tuo suono deve cambiare, ma come fare senza inseguire disperatamente le mode? Il segreto di Sade e della sua band è semplice: less is more, più elementi togli e meglio è. Stronger than pride è una lectio magistralis nelle arti dell’autocontrollo e dell’asciuttezza stilistica. La band ha capito che con una personalità magnetica come quella di Sade a fare da collante poteva osare molto e sapeva che tutti gli elementi che toglievano avrebbero fatto brillare di più la sua voce e la sua presenza.

Questo album ha gettato le basi per il suono di Sade che, con pochi accorti aggiustamenti è rimasto lo stesso fino a oggi. E soprattutto ha ispirato una nuova ondata di artisti neri in Europa e negli Stati Uniti, influenzando diversi generi musicali dal nu soul all’hip-hop più sofisticato.

Sade
Stronger than pride
Epic / Sony, 1988

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