La filosofia post-digitale di Lady Gaga
Nell’estate 2013, quando uscì Applause, il nuovo singolo di Lady Gaga, il mondo soffriva di affaticamento da Gaga. Ne soffriva l’artista stessa, che alla fine del suo Born this way ball tour si fermò molti mesi per operarsi all’anca.
Applause è comunque un grande pezzo: fin dall’arpeggio di synth che fa da intro è un ritorno alla Gaga elettronica e massimalista di Poker face dopo la Gaga rock e un po’ predicatoria del precedente album Born this way. Dopo aver scritto, cantato e portato in tour canzoni che incoraggiavano i suoi ascoltatori e le sue ascoltatrici ad abbracciare la loro identità qualunque essa fosse, Lady Gaga canta e balla solo per sé: Applause è un faraonico monumento a se stessa. “Vivo per l’applauso”, canta nel ritornello e incoraggia ad applaudirla sempre più forte. È un pezzo sovraccarico che ha qualcosa di disperato, la confessione di una diva che senza l’adorazione dei fan si spegnerebbe. La sua voce è potente anche se appena incrinata quando dice: “Se solo la fama potesse arrivarmi per endovena…”.
Essere famosa, essere adorata, essere al centro dell’attenzione è una droga, la più potente e letale che ci sia. Applause è soprattutto una narcisistica corsa verso l’autodistruzione, forse la riflessione più onesta e coraggiosa di cosa sia la fama a metà degli anni dieci del nuovo millennio. Ma il messaggio davvero interessante è nel secondo verso: “Per un minuto sono un Koons, ma poi all’improvviso è il Koons a essere me… la cultura pop era nell’arte e ora l’arte è nella cultura pop e in me”. Gaga si paragona a un’opera di Jeff Koons e si chiede: chi è arrivata prima, la fama o l’opera d’arte? La cultura pop o la cosiddetta cultura alta?
Applause è una canzone sulla dipendenza dalla fama e sulla fama vista come oggetto d’arte. Lady Gaga è la scultura di se stessa e l’applauso, l’adorazione dei fan, è la materia che le dà non solo nutrimento ma corpo e sostanza. Lady Gaga è la sua stessa fama.
Applause, diretto da Inez e Vinoodh
Il video di Applause, diretto dal duo Inez & Vinoodh vede Lady Gaga cambiare forma vertiginosamente: i costumi che indossa, le parrucche, il trucco sembrano prosecuzioni organiche del suo corpo, armi di seduzione che hanno qualcosa di viscerale e di fisiologico. La fotografa olandese Inez van Lamsweerde (parte del duo creativo che dirige il video) negli anni novanta era diventata famosa per le sue inquietanti immagini di bambine su cui venivano montati occhi e bocche di modelle adulte e per Gaga inventa queste nuove, spettacolari forme postumane: ali biomeccaniche che sembrano uscire dai codici leonardeschi, code pennute e fluorescenti, abiti che sembrano fatti di scaglie e pelle nuda che riflette la luce come un’armatura medievale. Inez & Vinoodh in questo video trattano il nudo di Lady Gaga non come un oggetto di desiderio ma piuttosto come un oggetto contundente: qualcosa di elastico, indistruttibile, pronto a scattare fuori dallo schermo.
Più Marilyn Manson che Madonna
Applause, sia musicalmente sia visivamente, è una sfida all’ascoltatore casuale di musica pop: Lady Gaga non ha nulla di rassicurante, è più Marilyn Manson che Madonna e la musica è compatta, incalzante e metallica. Bridge e ritornello sono come al solito irresistibili ma non s’insinuano a sorpresa per carezzare l’ascoltatore, piuttosto gli vengono scagliati in faccia. Applause non chiede di essere ascoltata o di essere preferita a qualcos’altro: è un’imboscata, un atto di guerriglia.
Il pubblico però, stavolta, sembra atterrito, o più che altro sfinito. Il singolo pop più fortunato di quell’estate è Roar di Katy Perry, un astuto pezzo radiofonico che incorpora elementi di rock da stadio al servizio di un ritornello tanto facile quanto memorabile. E Perry è l’opposto di Lady Gaga: sempre sorridente, ha la simpatia di una protagonista di sitcom e il sex appeal di una sana ragazzona americana. Anche lei si traveste (in Roar è una fumettistica regina della giungla), ma il suo costume non è una corazza o un esoscheletro da combattimento, al massimo è un travestimento da Halloween che le permette di far intravedere ai ragazzi un po’ di pelle.
Il successo di Roar di Katy Perry rispetto all’accoglienza tiepida per Applause è visto come un segno dei tempi. Il pop torna a essere inoffensivo e divertente e non c’è più tanto spazio per la complessità un po’ indigesta di Lady Gaga. E quando Miley Cyrus esce nell’agosto dello stesso anno con Wrecking ball, musicalmente la più classica e rassicurante delle power ballad anni ottanta accompagnata da un nudo integrale nel video, lo spazio di manovra per il pop acido e futurista di Lady Gaga sembra sempre più angusto.
Lady Gaga, G.U.Y., diretto da Lady Gaga
È proprio nei mesi che precedono l’uscita di Artpop, il terzo album di Lady Gaga, che comincia a diffondersi la voce che il disco sarà il suo primo, vero fiasco. L’hype è una strana bestia, può funzionare in positivo (creando aspettativa e dando slancio a un nuovo progetto) o in negativo (affossando un album prima ancora che sia partita la promozione). Così Artpop diventa, prima ancora che qualcuno l’abbia ascoltato, oggetto di un hype negativo propagato dai social network.
Con i suoi produttori (Dj White Shadow, Zedd e Rick Rubin tra gli altri) Lady Gaga lavora in modo frenetico e rapido alle nuove canzoni. Non si cerca un suono pulito o accattivante, gli spigoli non vengono smussati e Gaga canta con una voce potente ma palesemente provata dal lungo tour. In diversi pezzi si ha l’impressione che vocalmente sia stata “buona la prima”, senza troppi ripensamenti o aggiustamenti. Lady Gaga ha dimostrato più volte di essere una buona cantante, capace di performance nitide e pulite. In Artpop preferisce l’immediatezza di un’interpretazione imperfetta, registrata a bruciapelo ma pervasa di urgenza, quasi di fretta. A ingabbiare la sua voce una produzione compressa e implacabile, un synth pop scuro, spesso venato di industrial e di techno anche quando sembra aprirsi a un rnb più palatabile.
In Artpop non ci sono pezzi deboli o riempitivi; è la produzione, quel suono così invadente e privo di aria o di spiragli di luce a renderlo un’esperienza impegnativa per l’ascoltatore. È un pop radiofonico ma iperaccelerato e pieno di riferimenti sia sonori sia culturali a qualcos’altro: in ogni piega di questo lavoro c’è un rimando, una citazione, uno strato sottostante da scoprire. Un po’ come nella copertina dell’album disegnata da Jeff Koons, in cui Gaga appare come una statua dalle cui gambe aperte esce un globo blu. Dietro di lei un collage in cui s’intravedono frammenti della Nascita di Venere di Botticelli, forse il quadro, dopo la Gioconda, più citato dalla cultura pop, da Andy Warhol ai disgraziati creativi di #Opentomeraviglia.
Un marketing disastroso
L’idea di applicare certe tecniche di détournement, di accumulo o di citazionismo dell’arte contemporanea a un prodotto pop commerciale fa di Artpop un Frankenstein, difficile da capire al primo ascolto. E sicuramente non è stato aiutato dalla sua campagna di marketing, tanto che, a dieci anni di distanza, viene il dubbio che la vera opera d’arte situazionista non sia stato tanto l’album in sé quanto il suo roll out, ovvero la sua promozione.
Singoli, video, lanci promozionali e apparizioni pubbliche si succedono a valanga, in modo disordinato e imprevedibile. Lady Gaga è allo stesso tempo sovraesposta e invisibile. È sovraesposta perché è ovunque; è invisibile perché spesso si presenta in pubblico talmente travestita da essere irriconoscibile. Anche le foto promozionali di quel periodo sono tutte diverse: molti dei ritratti scattati da Inez & Vinoodh sono geniali ma Gaga è sempre meno riconoscibile tra parrucche, protesi dentali, arti artificiali e trucco teatrale. Anche nelle apparizioni pubbliche l’artista scompare, inghiottita da abiti-scultura, abiti-evento, abiti-performance che cambia di continuo. La Lady Gaga di Artpop è una tela vuota su cui chiunque può dipingere: un concetto coraggioso e interessante ma assolutamente controcorrente in un ecosistema della celebrità in cui devi essere riconoscibile sempre e sempre disponibile per i fan che ti seguono sui social network. La Gaga di Artpop fa una promozione al contrario; si dissolve in milioni di se stesse alternative anziché sustanziarsi per i suoi fan. Scomparire nell’era dell’onnipresenza digitale è il più estremo atto di hubris che una popstar possa fare e Gaga decide di mettere le ali e di volare pericolosamente vicino al sole.
Tra Walter Benjamin e Donatella Versace
Aura, il pezzo che apre l’album, è già dal titolo una strizzata d’occhio a qualunque studente d’arte contemporanea che abbia letto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin. “Vuoi vedere la ragazza che vive dietro l’aura?”, canta Lady Gaga che invita l’ascoltatore a un disvelamento: e, come l’opera d’arte di cui parlava Benjamin nel suo fondamentale saggio del 1936, così anche Lady Gaga è pronta a spogliarsi della sua aura per consegnarsi al mondo come prodotto eternamente riproducibile, streamabile, piratabile e remixabile.
Artpop è pieno di bizzarre teorie estetiche infilate a tradimento nei testi delle canzoni: nel pezzo che dà il titolo all’album Gaga canta: “Vieni da me con tutti i tuoi sottotesti e le tue fantasie… il mio artpop può significare tutto”. Però poi, assurdamente, ci riporta a un senso di genuinità, che ricordiamolo, nella musica pop è sempre artificio: “Cerco di vendere me stessa ma alla fine rido perché amo la musica e non il bling” (ovvero gli status symbol luccicanti che arrivano con la fama e il denaro).
Lady Gaga amerà la musica e non il bling ma nessun’altra artista pop sa parlare di bling come lei: Donatella è un pezzo apertamente ispirato alla signora Versace che si apre con le parole: “Sono pazzesca, guardami, sono bionda, magra, ricca e sono un po’ una stronza”. All’inizio, quando nel primo verso dice: “Voglio vestirti tutta in taffeta di seta”, Donatella sembra una nipote di Dress you up, la canzone che Madonna fece debuttare nel 1984 al compleanno di Keith Haring a New York, ma poi mostra i denti aguzzi ed emerge la sua vera intenzione: è una canzone che parla di glamour e potere, di moda e di controllo: “Questi abiti sono fatti su misura per calzare il tuo senso di colpa, che taglia porti?”. E poi “cammina sulla passerella, ma non vomitare, va bene così… oggi hai mangiato solo un’insalata… ”. Se la Madonna di Dress you up, a metà anni ottanta, si accontentava di far sentire “il tocco setoso delle sue carezze” a un uomo abituato a farsi fare gli abiti su misura a Londra (puro American gigolo), per Lady Gaga la moda non ha più niente di erotizzante o desiderabile, è solo ricatto e potere.
Sesso e sopraffazione
Anche Manicure, in questo senso, è sorprendente, nonostante il titolo così vaporoso e femminile è uno dei pezzi più sgangherati e quasi industrial-rock dell’album ed è un pezzo che parlando di dipendenza sessuale si basa sul gioco di parole tra “manicure” e “man cure”, l’illusione che le attenzioni di un uomo possano essere la panacea di ogni male esistenziale.
Il sesso come strumento di sopraffazione da una parte e come atto liberatorio dall’altra è un altro tema centrale di Artpop: Sexxx dreams e G.U.Y. (che sta per “girl under you”, la ragazza sotto di te) sono due fantasie sessuali. La prima è giocosamente masturbatoria e ispirata al funk soft porno anni ottanta di Prince e delle sue Vanity 6; la seconda è più complessa e macchinosa: un’ode alla sottomissione come strumento di liberazione di sé. Anche Madonna era passata attraverso temi simili ai tempi di Justify my love ed Erotica, nei primissimi anni novanta, ma a quell’estetica da porno patinato a ritmo di hip-hop mid-tempo, Lady Gaga sostituisce un iperattivo pezzo Edm a 110 beat al minuto tutto violenti lampi fluo e strattoni di rumorismo elettronico.
Il sesso è anche al centro di Do what you want, il pezzo più sfortunato e controverso dell’album, che non sentirete nella versione in streaming di Artpop perché espunto dall’album dopo la definitiva incarcerazione per violenza sessuale e rapimento del suo coautore e produttore R Kelly. Do what you want è un pezzo di rnb futurista, con un ritornello magistrale, che non può non essere un singolo. Viene perfino girato un video diretto dal fotografo Terry Richardson, che viene ritirato subito prima della sua uscita a causa degli scandali sessuali che lo stavano sommergendo. L’unica vera potenziale hit di un album macchinoso e complesso come Artpop è scritta ed eseguita insieme a uno stupratore ormai smascherato e il video viene diretto da un altro personaggio sempre più impresentabile. Per la promozione già difficile di Artpop è l’ultimo colpo.
Lady Gaga e R Kelly riescono ancora a cantare insieme Do what you want agli Mtv music awards in un’esibizione che un manager o publicist dotato di un qualunque raziocinio avrebbe altamente sconsigliato: R Kelly è il presidente degli Stati Uniti che fuma un sigaro nell’oval office e Gaga è la sua procace e vogliosa segretaria, un po’ Marilyn Monroe e un po’ Monica Lewinski. Lady Gaga è abituata agli scandali e li sa sfruttare a suo vantaggio, ma quel che è troppo è troppo: la promozione di Artpop va a rotoli e quell’album così complesso, stratificato e coraggioso in un’epoca di popstar sempre più normalizzate e inoffensive si ripiega su se stesso e si sgonfia come una triste mongolfiera bucata.
Nel 2010, tre anni prima dell’uscita di Artpop, l’accademica e sociologa femminista Camille Paglia scrisse un pezzo sul Sunday Times che demoliva Lady Gaga. Paglia era stata una delle prime sostenitrici di Madonna e ne aveva apprezzato, sul finire degli anni ottanta, la carica sessuale e liberatoria. Per lei Gaga è invece l’anti-Madonna: “Come può una figura così calcolata e artificiale”, scrive Paglia, “così cinica e stranamente antisettica , così priva di vero erotismo diventare l’icona di una generazione?”. Insomma per Camille Paglia Gaga non è abbastanza sessuale ed è qui che, a mio avviso, manca il bersaglio. Lady Gaga usa il sesso in modo diverso da come lo usava Madonna: per lei è uno dei tanti aspetti della celebrità in un’epoca in cui la pornografia è a portata di smartphone per chiunque. A Lady Gaga non interessa né essere attraente né tantomeno scandalizzare con la sua nudità, a Gaga interessa sguazzare nella frammentazione estrema della cultura pop del nuovo millennio, la sua è un’estetica iperattiva, post-digitale e post-internet. Gaga è esibizionista, assurda e sì, molto spesso anche asessuata, come sono esibizionisti, assurdi e per lo più asessuati i tempi in cui viviamo.
Artpop, a dieci anni di distanza, è tutt’altro che un flop: è un lavoro complesso, a volte anche faticoso da ascoltare, ma pieno di riflessioni ancora validissime su cosa significhi esibirsi oggi, essere degli artisti pop e fare di se stessi, consapevolmente, un prodotto di consumo.
Lady Gaga
Artpop
Intrerscope, 2013