I Cure e la loro salvifica vena pop
I Cure sono stati per la generazione X, di cui fanno parte le persone nate tra il 1965 e il 1980, quello che i Pink Floyd sono stati per i boomer. Una band longeva, ambiziosa, commercialmente rilevante ma allo stesso tempo febbrile e creativa, dotata di un’estetica e di un immaginario ricchissimi. Sono nati dal post-punk e hanno usato la sottocultura goth (dalle nostre parti dark) come trampolino per tuffarsi in un mare molto più vasto fatto di psichedelia, rock sinfonico, esoterismo, esotismo e puro, leggerissimo pop.
Ebbene sì, a differenza dei Pink Floyd, che il pop radiofonico lo hanno sfiorato a inizio carriera andando a cantare See Emily play alla trasmissione tv Top of the pops nel 1967 e che al loro debutto furono accusati da Pete Townshend degli Who di fare “solo canzoni”, i Cure hanno sempre amato il pop. Lo hanno fatto a modo loro, in maniera schizofrenica, capricciosa e non sempre riuscita, ma lo hanno fatto prendendolo, com’è giusto, assolutamente sul serio. Da Boys don’t cry a Lullaby, da Why can’t i be you a Close to me, da Just like heaven a Friday i’m in love la discografia dei Cure è costellata di singoli pop irresistibili.
Il 1982 è forse l’anno in cui i Cure sono stati più lontani che mai dal pop. Con Pornography Robert Smith, il leader della band, era riuscito a realizzare quello che avrebbe potuto essere il suo ultimo album: rumoroso, stridente, claustrofobico, nichilista, pervaso da un sottile senso di morte e di schifo per il mondo. “Il mio disco del vaffanculo a tutti”, lo aveva definito lo stesso Smith. Il critico David Quantick sul New Musical Express aveva descritto il suono dell’album come “Phil Spector all’inferno”.
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Pornography in effetti segna un prima e un dopo nella vita dei Cure. Fourteen explicit moments, il tour che in teoria doveva promuovere l’album, fu un disastro e li vide crollare miseramente. Se Pornography doveva essere l’album del vaffanculo a tutti, quel tour fu davvero il momento in cui i Cure mandarono affanculo non solo i fan ma anche loro stessi. “La scenografia del tour”, scrive Simon Price nel suo monumentale compendio Curepedia, “era tanto innovativa quanto aggressiva. Il tecnico delle luci Mac passava sugli schermi spruzzi di colore mentre le pedane e gli amplificatori erano coperti di specchi in modo da confondere e abbagliare il pubblico, e i Cure avevano cominciato ad adottare il look che li avrebbe resi famosi in seguito: capelli enormi – frisé, pieni di gel e tenuti su con la lacca – e il loro trucco era volutamente grottesco. Non si mettevano il rossetto solo sulla bocca ma anche sotto gli occhi, in modo che quando sudavano sotto le luci sembrava che piangessero sangue”.
Molti critici dissero che lo show somigliava, almeno visivamente, a qualcosa dei Pink Floyd, ma la musica era caotica, piena di rumore e di feedback ed era evidente che i componenti della band si odiavano. Tanto che, a Strasburgo, dopo una rissa tra Robert Smith e il bassista Simon Gallup, decisero di mollare tutto a metà. Fu il padre di Robert Smith, Alex, a convincere la band a finire in qualche modo il tour europeo: i biglietti erano stati venduti e loro avevano una responsabilità nei confronti di pubblico e promoter.
Sussurri in giapponese
Alla fine del 1982 dunque i Cure non esistono praticamente più. Robert Smith, lo ha ammesso nel 2000 alla rivista Uncut, finisce per avere un esaurimento nervoso e torna a vivere dai genitori. Eppure, proprio nel momento più nero della più dark delle band britanniche, arriva la forza salvifica del pop.
A inizio 1983 esce l’album successivo a Pornography, s’initola Japanese whispers e non è neanche un album, è una raccolta di singoli. Di bizzarri, sghembi, divertentissimi singoli pop. Japanese whispers, “sussurri in giapponese”, è un calembour sul gioco del telefono senza fili, quello in cui ci si mette in fila e si sussurra velocemente una frase al vicino finché, viaggiando da un giocatore all’altro, diventa incomprensibile. In inglese questo gioco si chiama chinese whispers. Nel disco dei Cure i sussurri diventano in giapponese sia perché i Cure adorano il Giappone (in cui erano già stati in tour in tempi migliori) sia perché in una delle canzoni, The walk, un verso dice: “Ti vedevo e sembravi una bambina giapponese”.
Al momento di mettere insieme i pezzi di Japanese whispers i Cure sono ridotti a due componenti: Robert Smith e il batterista Lol Tolhurst, che a questo punto diventa tastierista. Alla batteria e percussioni a un certo punto è chiamato Andy Anderson (1951-2019), uno dei pochissimi musicisti neri a comparire in una band new wave o post-punk britannica. Nella voce che gli dedica Simon Price in Curepedia si spiega che il suo essere nero gli causò non pochi problemi di razzismo più o meno esplicito, sia nella scena musicale sia all’interno della band. Anderson era un percussionista sopraffino e più che nei pezzi di Japanese whispers il suo lavoro brilla nell’album The top del 1984 e soprattutto in pezzi frastagliati e sorprendenti come The caterpillar o in tour de force come Give me it.
Japanese whispers è una sorta di morte e di rinascita attraverso il potere salvifico della pop music. E siccome siamo nel 1983, l’anno dell’esplosione del synth pop britannico, le nuove canzoni dei Cure sono per lo più basate su basso, percussioni e tastiere, tante tastiere. Per dare un po’ di contesto: in quello stesso periodo i New Order uscivano con Blue monday.
Let’s go to bed, il pezzo che apre la raccolta, è il primo di quelli che Smith ha chiamato fantasy singles, singoletti pop messi insieme in fretta e furia su richiesta esplicita del manager dei Cure, Chris Parry. La sua intenzione era quella di far uscire qualcosa di assurdo che spiazzasse il pubblico e frantumasse definitivamente il già traballante mito della band. Non era una cattiva idea perché questa leggera, allora apparentemente insensata svolta pop è stata la ricetta per l’eterna giovinezza dei Cure che, ancora oggi, riempiono i palazzetti dello sport di tutto il mondo.
Let’s go to bed era stata pensata da Robert Smith come compendio di tutto ciò che di orribile c’era nella musica pop di allora: tastieroni, drum machine con echi e riverberi e un testo privo di senso. Eppure la canzone è tutt’altro che orribile: per me rimane, a tutt’oggi, uno dei singoli più croccanti e divertenti dei Cure. Smith se ne vergognava al punto da volerla fare uscire sotto un altro nome ma Chris Parry insisteva: il singolo doveva uscire e doveva uscire come pezzo dei Cure.
Il video di Let’s go to bed vede la prima collaborazione della band con il regista Tim Pope, che aveva già realizzato i video per Non stop erotic cabaret dei Soft Cell: siamo nei primi anni ottanta e i video sono uno strumento promozionale indispensabile. In Tim Pope i Cure trovano un alleato capace d’immaginare per loro un’estetica misteriosa e gotica ma allo stesso tempo giocosa e irriverente. Il ruolo del regista non è da sottovalutare nella rinascita e nella longevità di questa band che andava autodistruggendosi per rinascere più forte e più pop di prima.
Robert Smith demoliva Let’s go to bed anche nelle interviste radiofoniche organizzate per promuoverla, ma col tempo ha imparato ad amarla. La canzone andava malissimo in Europa ma pian piano entrava nelle classifiche dance statunitensi, Smith cominciava a rendersi conto che negli Stati Uniti il loro pubblico cominciava a essere fatto di “intensi, minacciosi e psicotici darkettoni da una parte e da sani ragazzi dai denti bianchissimi dall’altra”. A oggi, ci ricorda l’enciclopedico Simon Price, Let’s go to bed è la dodicesima canzone più suonata dal vivo dei Cure.
The walk si muove con più sicurezza in territorio synth pop. Il riff di tastiera che apre il pezzo è memorabile: i Depeche Mode e gli Yazoo avrebbero ucciso per un pezzo così. Robert Smith e Lol Tolhurst lo buttarono giù quasi per gioco. Qui c’è un altro batterista ancora, Steve Goulding, e per la prima volta nella storia dei Cure un produttore, Steve Eye della Penguin Cafe Orchestra. Le parole nascono dal quaderno dei sogni di Robert Smith e della fidanzata Mary Poole (a tutt’oggi sua moglie: i due non hanno figli ma 25 nipoti): c’è una donna che grida, una fuga notturna nei boschi e una persona che “sembra una bambina giapponese”. The walk è stato il primo vero successo in classifica dei Cure.
The lovecats è il terzo e ultimo dei fantasy singles dei Cure. Ed è la più sorprendente, pazzoide e furbetta delle loro trappole pop. È un pezzo vagamente ragtime, con accenni di swing e Lol Tolhurst per l’occasione impara a suonare il vibrafono. The lovecats è un pezzo pop-jazz carnevalesco che sembra la sigla di un cartone animato: nel video di Tim Pope, ambientato in una casa abbandonata, tra lenzuoli bianchi, croste dell’ottocento alle pareti e polverosi gatti impagliati, compare un trombettista con addosso un tutone da Gatto Silvestro. Qualche anno dopo, nel 1987, Robert Smith stesso porterà un tutone di peluche nel video (all’epoca vituperato) di Why can’t I be you. All’epoca i dark italiani, sconsolati, dicevano che Robert Smith sembrava il Tenerone della trasmissione comica Drive in.
Dal gotico al kawaii
E questo ci porta a un aspetto molto importante della trasformazione di Robert Smith da schivo musicista goth-rock con gli occhi bistrati fissi sui pedali della chitarra a riluttante popstar di Mtv. Più che essere sessualmente aggressivo, macho o, al contrario, gender fluid come molti suoi contemporanei, Robert Smith sceglie una terza via: quella della “carineria”, del kawaii per dirla in giapponese. Smith si desessualizza e si trasforma in un peluche, in una bambola funko pop ante litteram. Il trucco che all’epoca di Pornography sembrava così minaccioso ora è un gioco, i capelli ispidi e aggressivi e ancora così punk, ora sono sospesi in una morbida nuvola di lacca. Robert Smith comincia a indossare camicie colorate o a pois, collane, braccialetti e catenine, e si fa fotografare con dei gattini.
È di questo periodo una memorabile foto con Siouxsie Sioux, altra profeta del post-punk, in cui i due sembrano gemelli terribili, sorpresi a fare un gioco vietato dai genitori. In modo analogo a Boy George, ma con stile e obiettivi completamente diversi, diventa un adorabile bambolotto post-punk. Ma attenzione, e qui è il genio dei Cure, mai tradendo l’ispirazione originaria della band che con il tempo ha cambiato configurazione e ha continuato a produrre album ponderosi e memorabili come Disintegration (1989) e Bloodflowers (2000) che con il vecchio Pornography formano una sorta di trilogia involontaria, piena di dolente autoanalisi e di cupio dissolvi.
Il resto di Japanese whispers contiene le b-side di quei famigerati singoli: Just one kiss e The upstairs room sono altri due impeccabili pezzi synth-pop, Speak my language è un numero da cabaret simile a The lovecats e solo la splendida, solenne Lament sembra uscita dalla discografia precedente dei Cure. Inspiegabilmente manca all’appello Mr Pink eyes , un allucinato rockabilly che compariva nella versione a 12 pollici del singolo di The lovecats.
Japanese whispers non è neanche un album, è una raccolta di singoli, ma ha un ruolo fondamentale nell’evoluzione dei Cure: è la reazione a una durissima crisi creativa ed esistenziale. Attraverso un pop apparentemente leggerissimo e disimpegnato Robert Smith riesce a uscire da se stesso, quasi fino a sdoppiarsi, e soprattutto riesce a fare pace con un aspetto della sua complessa e spigolosa personalità. Dal 1983 in avanti il Robert Smith buffonesco e pop ha convissuto con il dolente e introspettivo Robert Smith di Disintegration e Bloodflowers.
The Cure
Japanese whispers
Fiction 1983