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Loredana Bertè e il suo Sanremo incazzato

Loredana Bertè al festival di Sanremo, 1994. (Rino Petrosino, Mondadori Portfolio)

Loredana Bertè, che quest’anno torna al festival di Sanremo con la canzone Pazza, è una delle più importanti interpreti, autrici e pop star della canzone italiana. Forse è stata la prima nel nostro paese a essere compiutamente e organicamente tutte queste cose insieme. Soprattutto è stata la prima a usare il suo corpo, la sua storia e le sue vicende personali come materiale da portare in scena. La sua voce, fin dagli esordi, combina ruvidezza e dolcezza, fragilità e forza, entusiasmo e scoramento. Bertè canta sempre di sé, ma non lo fa mai in modo ombelicale o compiaciuto. Quando Bertè sale su un palcoscenico si offre al giudizio del pubblico, ma non è mai docile o compiacente: cerca il confronto con lo sguardo, con il linguaggio del corpo e soprattutto con la voce.

È stata spesso descritta come provocante e provocatoria, selvaggia, incorreggibile, difficile, matta… in realtà è sempre stata, e continua a essere, libera. Ed è questa sua libertà, che emana appena sale su un palco, non importa se da giovane o da vecchia, che in qualche modo disturba. Sì perché Loredana Bertè ha una particolarità: è un’artista amatissima ma ogni volta si deve riconquistare da zero l’amore e il rispetto del pubblico. Ogni volta sembra che debba farsi perdonare qualcosa, perché l’unica cosa che non le è mai stata perdonata davvero è la sua libertà. Una donna libera (libera d’invecchiare come vuole, di dire quello che vuole come vuole, di essere brutta o di essere sexy, di cantare o di non cantare) fa ancora paura. Fateci caso: quanti ritorni ha avuto Loredana Bertè? Quante volte è stata data per finita? Quante volte si è parlato di lei al passato come se fosse morta? E quante volte ha dovuto dimostrare di esserci ancora?

Nel 1994, l’anno della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, Loredana Bertè era considerata finita. Come artista e come persona. Artisticamente era un relitto degli anni settanta e dei primi ottanta e, secondo la stampa scandalistica che dettava le regole di come si dovesse parlare di lei pubblicamente, era una donna scassata che faceva su e giù con gli ospedali tra crisi depressive e tentativi di suicidio. Il suo matrimonio con il tennista svedese Björn Borg doveva essere una favola e si era trasformato in un incubo. La colpa era ovviamente solo sua, del suo sangue caldo calabrese, della sua eccessiva esuberanza sessuale e ancora una volta della sua libertà, sempre troppo rivendicata, sempre troppo esibita. Libera va bene ma non troppo libera.

Loredana Bertè non è stata la prima cantante italiana a essere massacrata dalla stampa scandalistica: era capitato a Mina prima di lei e in un’Italia molto più bacchettona e perbenista. Ma Bertè è stata la prima a non nascondersi e a usare nella sua arte, nel suo personaggio pubblico, quello che veniva scritto e detto per demolirla.

Per le pop star di oggi è normale che il rapporto malato con i tabloid e con i social network sia oggetto di canzoni, di album, di tour e di storie di copertina. È anche normale, anzi direi obbligatorio, per una pop star di oggi parlare di abusi, traumi e violenze subite. Da una parte è il segno di tempi più progrediti e più attenti alla salute mentale degli artisti e del pubblico che si riflette nelle loro canzoni, dall’altra è inevitabilmente una forma di banalizzazione e di omologazione del dolore, la trasformazione del disagio e del malessere in uno strumento di marketing.

Dieci anni prima che una pop star come Britney Spears crollasse pubblicamente per poi raccontare il suo inferno personale in un album, trent’anni prima che il mondo della musica, e anche della politica, fosse diviso in fan e hater, Loredana Bertè è salita sul palcoscenico più visibile d’Italia per cantare il suo disagio, la sua incazzatura col mondo e per rivendicare ancora una volta la sua libertà. Nel 1994 malessere mentale, disagio e incazzatura (insisto con questo termine perché non ne trovo di migliori) erano tutt’altro che strumenti di marketing: erano un revolver puntato alla tempia, la garanzia di un suicidio commerciale in diretta tv.

Un festival conservatore

Amici non ne ho è uno dei pezzi più memorabili mai ascoltati a Sanremo. Il testo è in parte scritto dalla stessa Bertè e la musica è di Philippe Leon, eclettico compositore italotunisino che aveva lavorato già con Adriano Celentano e Patty Pravo, tra gli altri. Suo è il giro di frase del ritornello “E io non ci sto a guardare le stelle nel cielo” a cui Loredana Bertè ha agganciato un testo personale sulla sua solitudine, le sue delusioni e, appunto, la sua ostinata, tetragona incazzatura col mondo.

Quello del 1994 era il Sanremo presentato da Pippo Baudo (era stato lui a volere fortemente il ritorno di Loredana Bertè), da Anna Oxa e dalla showgirl antillana Cannelle. Il vincitore di quell’anno fu Aleandro Baldi con la melodica e un po’ antiquata Passerà (non a caso ripresa nel 2004 dal melenso gruppo di crossover classico Il Divo). Ma soprattutto Sanremo ’94 fu il trampolino di lancio per Andrea Bocelli, non esattamente un temerario innovatore, che vinse nella categoria nuove proposte con Il mare calmo della sera. Dal punto di vista delle voci femminili quel festival fu la conferma di Laura Pausini (terza classificata con Strani amori, che poi è stato un grandissimo successo) e la rivelazione del talento di Giorgia (settima classificata nella categoria nuove proposte con E poi).

Difficile immaginare interpreti più diverse da Loredana Bertè di Giorgia (intonazione cristallina e Whitney Houston come modello) e Laura Pausini (voce atletica e tecnica muscolare al servizio di canzoni pop sentimentali e irresistibili). La nuova generazione di interpreti italiane è agguerrita, vocalmente preparatissima e assolutamente in sintonia con la pancia dell’Italia che sta uscendo dalla prima repubblica per scivolare stancamente nella seconda.

Loredana Bertè, “Amici non ne ho” alla prima serata del Festival di Sanremo del 1994


La sensuale ruvidezza di Bertè, il suo amore per il rock e per la grande musica brasiliana sono anticaglie nell’Italia del 1994 che premia o la melodia più classica o un pop pulito, senza troppi spigoli ed eseguito in modo impeccabile. Il verso di Amici non ne ho in cui Bertè canta “è opinione generale quella che io non so cantare e che vesto sempre male” è chiaramente la sua presa di coscienza di essere sbagliata per quei tempi di iperprofessionismo esibito e celebrato come valore in sé. Bertè nel 1994 non è solo troppo vecchia (in realtà ha 44 anni, l’età che aveva Tina Turner all’epoca del suo massimo successo pop), ma anche troppo disordinata, troppo una scappata di casa, troppo indocile, troppo imprevedibile. E poi, se paragonata alle Giorgie e alle Pausini, “canta male”. Le sue dissonanze, i suoi salti di registro, le sue improvvisazioni, le sue invenzioni musicali sono considerate “cantare male” nell’anno d’oro del successo planetario di Céline Dion, la cantante canadese dall’ugola d’acciaio e interprete pop dal rigore cartesiano.

Nella prima serata di Sanremo, quando Loredana Bertè scende la scala dell’Ariston per essere accolta da Baudo e da Cannelle, è chiaramente nervosa. È fasciata in un abito da sera scuro, ha i capelli corvini e un sorriso un po’ forzato. Sa bene di essere la persona sbagliata nel posto sbagliato e nel momento sbagliato ma questo le dà una strana forza, un senso di sfida temeraria. A darle forza c’è anche l’amica Aida Cooper ai cori, che Bertè nomina e ringrazia appena il pezzo finisce.

Amici non ne ho parte con una base vagamente hip hop, molto simile a quella di tanti pezzi dei Massive Attack che allora andavano molto di moda (questo è più evidente nella versione in studio che nella versione con l’orchestra di Sanremo). Poi, dopo un bell’arpeggio di chitarra elettrica, entra Bertè con un primo verso che ci butta a capofitto nella sua solitudine: “Sono sola a casa mia, che mi faccio compagnia”. Esegue quell’attacco in modo sempre diverso nel corso del festival, come se fosse sorpresa dalla canzone sovrappensiero, mentre si trova appunto da sola casa a rimuginare.

Poco intelligente, rissosa e solitaria

Bertè si presenta come persona poco intelligente, molto rissosa e di conseguenza solitaria. Nel suo brevissimo scambio con Baudo e Cannelle riesce solo a dire che ormai le canzoni se le scrive da sola perché ha litigato praticamente con tutti.

E poi la canzone entra in una dimensione tra l’intimo e il politico che nel 1994 avevamo sottovalutato e che invece oggi ci suona come un po’ il fulcro dell’intero pezzo:

Con la foto di Guevara
vado a letto la mattina
incazzata come prima.
Sparo in cuffia regolare
solo l’Internazionale
per sognare sul finale.

Loredana Bertè si presenta orgogliosamente come relitto della sinistra, dell’impegno e della politica oltre che della musica degli anni settanta. Poche settimane dopo che Berlusconi, a reti unificate, ha siglato il suo “patto con gli italiani”, lei sale sul palco di Sanremo per far capire a tutti che ormai il mondo come lo conoscevamo è finito. Non c’è più spazio per l’impegno o per il sogno rivoluzionario in un 1994 in cui anche la politica, che fino al decennio precedente era ancora passione e ideologia, sta diventando marketing e gestione aziendale. È proprio da allora che la parola “ideologia” in Italia è considerata universalmente una parolaccia.

Bertè è ancora capace di sognare sul finale dell’Internazionale ma lo fa da sola, in cuffia, e la foto del Che, attaccata sopra al suo letto, non la consola ma la fa sentire sempre più sola e incazzata. Poi la canzone si apre in uno splendido ritornello pop, zampata del compositore Philippe Leon: “E non ci sto più a guardare le stelle nel cielo, io non ci credo più che si vince soltanto col cuore”. Bertè, sul palcoscenico del grazie dei fiori, del non ho l’età e del cuore che è uno zingaro, si autodenuncia: all’amore romantico non ci crede più e neanche all’amicizia. Ha deciso di accettare la sua solitudine, di sposarla. La sua però non è una resa ma un estremo, orgoglioso atto di libertà. E gira il coltello nella piaga:

Per la stampa nazionale
mi suicido per campare
come sponsor l’ospedale.

Oggi siamo abituati a canzoni che parlano di tabloid, di hater e di linciaggi mediatici, nel 1994 queste parole suonano assurde, impudiche, autolesioniste. Suonano contrarie al patto di devozione che una regina della canzone sigla con i suoi ammiratori: oggi le pop star si affrettano a ringraziare i fan, li blandiscono sui social network, cavalcano i rispettivi fandom e li dispongono come piccoli eserciti. Nel 1994 Bertè non ha paura di dire che è stata tradita anche dai suoi fan, che è rimasta davvero sola. Una canzone del genere oggi, nella sua crudezza e nella sua assoluta mancanza di vittimismo, sarebbe impensabile.

Nell’epoca in cui intere carriere artistiche (e anche politiche) sono basate sul vittimismo, sulla manipolazione del consenso e sull’esibizione di un impegno che quasi sempre è puramente performativo, Amici non ne ho suona disperatamente e profeticamente coraggiosa.

Loredana Bertè è stata la prima a fare molte cose. Per Non sono una signora si è vestita da sposa due anni prima che lo facesse Madonna. Con E la luna bussò è stata la prima a fare il reggae in Italia. È stata la prima a usare la sua bellezza e il suo corpo anche nudo come strumento di espressione e di liberazione e non solo come compromesso da mandare giù per forza. E con Amici non ne ho è stata la prima ad avere il coraggio di dirci cosa stavamo diventando. Perché quella canzone parla della solitudine e delle delusioni di una persona, ma soprattutto parla delle forze e delle condizioni, anche sociali, anche politiche, che hanno creato quella solitudine e quindi parla anche di noi.

Loredana Bertè
Amici non ne ho / Canta Vaya con Dios
Fonòpoli, 1994

Loredana Berté, “Amici non ne ho”, versione in studio, 1994


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