La scrittrice afroamericana di fantascienza Octavia E. Butler (1947-2006) è considerata la madre e la principale ispiratrice del movimento afrofuturista. La parola afrofuturismo, che indica l’intersezione, nel dibattito e nella produzione culturale dei neri d’America, tra diaspora africana e avanzamento tecnologico scientifico, è stata usata per la prima volta nel 1993 dal critico Mark Dary. Il 1993 è stato anche l’anno in cui Butler ha pubblicato il suo romanzo La parabola del seminatore, che torna finalmente in una nuova traduzione di Martina Testa per le edizioni Sur, dopo un’uscita fugace nel 2000 in una collana di fantascienza di Fanucci.

Octavia Butler è stata sempre una scrittrice di fantascienza: ha scritto di mondi lontani, di società del futuro, di alieni e di mutazioni. Essenzialmente però ha sempre scritto di storia, in particolare della storia dei neri, e lo ha fatto proiettando la sua gente nel futuro o nel passato schiavista (Legami di sangue) se non addirittura in altri mondi (il ciclo Xenogenesi). Il senso della cultura afrofuturista (che influenza anche musica, danza, teatro, fumetti e cinema) è quello d’immaginare la sopravvivenza dei neri nel futuro. “Questa visione è particolarmente significativa”, scrive la storica Tiya Miles in un bel profilo di Butler uscito sull’Atlantic, “perché esplora il potenziale della resistenza e della capacità di rigenerazione dei neri al di là delle ferite storiche di schiavitù e razzismo, senza rimuoverne il loro trauma brutale”.

Più che fantascienza vera e propria La parabola del seminatore è speculative fiction, ovvero una storia ambientata in un futuro vicino che per quanto terribile somiglia molto a una versione iperaccelerata del nostro presente. Ma se Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella ha mostrato una nuova società già solida e ben radicata o nel Ciclo del diluvio una nuova società e una nuova religione che si vanno consolidando, Octavia Butler nella Parabola del seminatore decide di mostrarci un mondo in disfacimento. In altre parole comincia descrivendoci la nostra fine e lo fa in modo drammaticamente efficace.

Siamo nei sobborghi di Los Angeles nel 2024 (ricordiamoci che Butler scriveva all’inizio degli anni novanta) e Lauren, la protagonista, è una quindicenne della classe media afroamericana. È una ragazza particolarmente intelligente e perspicace, tiene un diario in cui annota tutto ciò che le accade intorno ed è particolarmente legata al padre, un pastore battista, la cui figura di uomo colto, carismatico e generoso non può non ricordare quella di Martin Luther King. Lauren soffre di “iperempatia”, una condizione rara dovuta a dei farmaci che assumeva la madre. Lauren sente il dolore e il piacere della gente vicina a lei come se fossero i suoi. Nella storia sentirà molto più dolore che piacere.

Una società in disfacimento
Gli Stati Uniti del 2024 sono una società in disfacimento: la California del sud si è ormai desertificata per il cambiamento climatico, l’acqua potabile costa più dell’oro, il divario tra i pochissimi ricchi e i milioni di poveri è ormai incolmabile. Quello che rimane della classe media vive, come la famiglia di Lauren, in piccole comunità armate e circondate da mura e cancelli mentre le città vengono devastate da incendi e da scorribande di gang criminali. Una nuova droga, chiamata pyro, rende piromani: vediamo i nuovi tossici aggirarsi rasati e con la faccia dipinta tra le rovine in fiamme delle città pronti a stuprare, uccidere e bruciare chiunque gli si avvicini. Il resto della gente sopravvive come può prostituendosi, rubando, uccidendo o saccheggiando.

La piccola comunità in cui vive Lauren è assediata ma sopravvive. Hanno un po’ di terra da coltivare e un pozzo, fanno dei turni di guardia al cancello e il padre di Lauren, che è un po’ il loro capo e guida spirituale, ha ancora un lavoro pagato in soldi in un momento in cui la poca gente che lavora lo fa in cambio di cibo e di acqua. In questo sfacelo il candidato favorito alle elezioni presidenziali, Christopher Donner, chiede agli elettori di aiutarlo “a rendere di nuovo grande l’America”. L’assonanza con il Make America great again di Donald Trump è impressionante soprattutto se pensiamo che Butler scriveva quando Trump era ancora uno strambo miliardario star della tv che compariva in film come Mamma ho perso l’aereo. Eppure nei suoi appunti di quel periodo Butler scriveva: “Quando si tratterà di eleggere un capo la gente preferirà credere a una bella bugia, specialmente se arriva da un bel bugiardo, un bel bugiardo maschio e bianco”.

Tiya Miles, che ha avuto modo di studiare l’archivio di Octavia Butler alla Huntington library di San Marino, in California, spiega che la scrittrice nel documentarsi per un nuovo romanzo lavorava come una storica: raccoglieva centinaia di ritagli di giornale sul cambiamento climatico, sulla nuova schiavitù, sulle nuove forme di povertà e di emarginazione. Partiva lei stessa per esplorazioni nel sud della California e annotava dove gli aranceti prosperavano e dove invece seccavano, studiava le piante più resistenti e quelle che andavano estinguendosi, si segnava dove c’erano pozzi o fonti d’acqua potabile. Prima di scrivere La parabola del seminatore aveva studiato ogni dettaglio del presente per proiettarlo in un futuro tanto terribile quanto plausibile. Nel descrivere il romanzo Miles parla di “histofuturism”, una sorta di futurismo ricostruito attraverso uno studio attento del presente condotto con metodo storico.

Quello che rende La parabola del seminatore uno straordinario racconto afrofuturista è lo sviluppo messianico che a un certo punto prende la storia. La comunità di Lauren viene distrutta e lei, una ragazzina di appena sedici anni, diventa il capo di uno sparuto gruppo di sopravvissuti diretto verso nord, dove il lavoro viene ancora pagato in soldi (forse) e dove c’è (forse) ancora dell’acqua a prezzi decenti. La diaspora dei poveri da sud a nord non può non ricordare la grande migrazione degli afroamericani dal sud schiavista al nord abolizionista e industrializzato. Sono schiavi o potenziali schiavi anche i personaggi del romanzo: nella California di Butler l’unica speranza per sopravvivere è quella di vendersi a una multinazionale, che in cambio di lavoro ti darà un tetto e del cibo facendoti entrare in un circolo vizioso di indebitamento che farà di te uno schiavo per tutta la vita, una versione ultracapitalista e postindustriale della servitù della gleba. E questa non è fantascienza: succede da tempo in molti paesi in cui l’occidente ricco delocalizza produzione e confezionamento dei tanti prodotti che siamo abituati a pagare poco senza farci troppe domande.

Una promessa messianica
Lauren oltre che una guida naturale, carismatica e rapidissima nelle decisioni, diventa anche un capo spirituale. Sul suo diario annota le basi di una nuova religione che lei chiama Il seme della Terra. Il seme che farà rinascere l’umanità saranno i sopravvissuti che avranno capito che l’unico vero dio è il cambiamento. Capire il cambiamento, anche quando è traumatico, ingiusto o crudele, non significa solo sopravvivere, ma anche essere testimoni e cantori della grandezza di dio. Gli appunti di Lauren diventano dunque un nuovo libro sacro che guida uno sgangherato, terrorizzato e affamato popolo eletto verso la salvezza. Ma per loro non si aprirà il mar Rosso e non ci sarà un messia pronto a morire per i loro peccati, il loro destino, ed è questo il nocciolo profondamente afrofuturista del romanzo: è nello spazio, tra quelle stelle che appaiono così luminose e lontane a chi tribola su questa terra.

Lauren, e con lei Octavia Butler, sa che la Terra è condannata e pensa che la sopravvivenza dell’umanità sia nei programmi spaziali che i governi di tutto il mondo hanno ormai sospeso perché ci sono emergenze più gravi. Lauren è ben cosciente che non sarà lei a volare nello spazio. E neanche i suoi figli o i figli dei suoi figli. Però sa che dio è cambiamento e che prima o poi il seme della Terra potrà propagarsi tra le stelle.

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