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L’eredità di David Bowie 

New York, 1997. David Bowie durante le riprese del videoclip per I’m afraid of americans. (Kevin Mazur, WireImage/Getty Images)

Il primo aprile del 1998 David Bowie era tra gli organizzatori, nello studio dell’artista Jeff Koons, di un elaborato pesce d’aprile. Lo scrittore britannico William Boyd aveva appena pubblicato, proprio grazie a Bowie, un libretto intitolato Nat Tate: an american artist 1928-1960, la biografia, con tanto di foto e illustrazioni, di un dimenticato esponente dell’espressionismo astratto newyorchese che, dopo una vita di frustrazioni e di insuccessi, nel 1960 si uccise gettandosi nel fiume dal traghetto di Staten Island. Quella sera nello studio di Koons, alla presentazione di quel libro-rivelazione (con tanto di nota di copertina di Gore Vidal) c’era tutto il bel mondo dell’arte contemporanea di New York e alle pareti c’erano i pochi lavori rimasti di Tate, che aveva bruciato tutte le sue opere prima di uccidersi.

Peccato che Nat Tate non era mai esistito e che quei lavori li aveva fatti lo stesso Boyd con uno stile che mescolava la pennellata decisa di Robert Motherwell ai graziosi ghirigori del Warhol illustratore pubblicitario. La finta biografia dell’inesistente Nat Tate è un libro appassionante e pieno di dettagli sulla sua vita privata e artistica: dal suo alcolismo ai rapporti con critici e galleristi dell’epoca, fino a un fatidico incontro a Parigi con Georges Braque, il padre del cubismo. Quella sera in molti vollero credere che ci fosse davvero un grande artista da riscoprire e alcuni dissero che certo sì, avevano sentito parlare dei disegni di Nat Tate. Mentre Bowie, Vidal, Boyd e i suoi complici se la ridevano.

Un artista inventato
Appassionarsi alla vita di un pittore inesistente al punto da organizzare uno scherzo così elaborato è la cosa più alla David Bowie che David Bowie abbia mai fatto. Forse nascosta in quel pesce d’aprile c’è tutta l’essenza della sua arte, perché lui stesso è stato un artista inesistente o, meglio, inventato. La sua idea di stile era artificiale e costruita, proprio come artificiali erano i disegni di Nat Tate che avevano ingannato tanti critici e galleristi impazienti di essere ingannati. Il David Bowie degli anni novanta era sopravvissuto a diverse morti e trasfigurazioni, soprattutto era un artista che aveva capito molto presto che non doveva ragionare da musicista ma da pittore e da regista teatrale. E una parte importantissima della sua arte è stata quella di crearsi un pubblico da zero a ogni nuovo progetto. Quando si parla di Bowie è fondamentale capire che la ragione del successo delle sue diverse incarnazioni non è tanto nelle tendenze che cercava di seguire o nel suo sintonizzarsi con la contemporaneità, quanto nel fatto che ogni cosa che faceva era pensata per essere interpretata dal pubblico. Non si dà mai abbastanza peso al fatto che tutti i suoi lavori, album, tour o film, sono sempre stati opere aperte che chiedevano (e chiedono) al pubblico un notevole sforzo interpretativo. E il pubblico è sempre vittima di un plagio, di uno scherzo, perché deve abbassare la soglia della credulità per far funzionare il meccanismo. Proprio come gli eleganti invitati alla presentazione del libro su Nat Tate che volevano credere all’esistenza di un artista così interessante e così ingiustamente dimenticato.

David Bowie, Little wonder, 1997. Regia di Floria Sigismondi


Quando nel 1997 uscì Earthling, il ventunesimo album di David Bowie, in molti fecero l’errore di definirlo il suo “album jungle”, per sottolineare la sua adesione alla moda musicale del momento. Lo stesso si disse negli anni ottanta del Bowie pop di Let’s dance e ancora prima, nel 1975, del Bowie rhythm’n’blues e funk di Young americans. Tra il 1995 e il 1999 molti artisti avevano scoperto i ritmi sghembi e spigolosi della jungle. Quell’elettronica percussiva e accelerata nata nelle periferie londinesi che è più corretto chiamare drum and bass era il suono della pre-millemmium tension, quell’indefinibile angoscia che accompagnava, come un fruscìo fastidioso, la seconda metà degli anni novanta. Il drum and bass, fuori dai club in cui era nato, era diventato un fiume carsico, un ronzìo di fondo che troviamo in tanti album di quel periodo, dal pop sofisticato di Walking wounded degli Everything but the Girl fino al sorprendente Ghostyhead, l’ennesimo ritorno della cantautrice Rickie Lee Jones. Proprio nel 1997 Roni Size & Reprazent, con quell’album eccezionale che fu New forms, avevano dato al drum and bass la dignità di genere musicale a sé fuori dai club, rendendolo qualcosa di molto flessibile, poroso e inafferrabile, in qualche modo simile al free jazz e all’improvvisazione.

Sul carro del drum and bass
E nel 1997 anche David Bowie, una rockstar cinquantenne secondo alcuni osservatori dell’epoca alla ricerca disperata di un pubblico giovane, con Earthling sembrava saltare sul carro del drum and bass. La realtà è molto più complessa e interessante di così e tornare oggi sul Bowie di quel periodo, tra i più ricchi e creativi della sua vita, ci aiuta a vedere la sua intera carriera (che nel 2016, con la sua morte, si è chiusa come un cerchio perfetto) sotto una luce nuova.

Il Bowie di fine secolo è il prodotto di una lunga evoluzione che era partita alla fine degli anni ottanta col disgraziato esperimento dei Tin Machine, la rockband dietro la quale Bowie aveva voluto nascondersi per uccidere la popstar di Mtv che era diventato. Con uno dei suoi consueti colpi di teatro Bowie si era dissolto nei Tin Machine che con il loro suono caotico e stridente schiacciavano qualunque pretesa artistica o commerciale. I Tin Machine non piacquero a nessuno, furono visti come un tentativo maldestro di intercettare il grunge che stava nascendo in quel momento e l’indie rock dei Pixies. In realtà, con lo sguardo di oggi, possiamo dire che i Tin Machine sono stati un capitolo fondamentale nella parabola di Bowie: sono serviti da catarsi, da morte rituale, da performance autodistruttiva per rinascere, ancora una volta, con una nuova pelle. Dai Tin Machine, soprattutto, è nata la collaborazione con il chitarrista Reeves Gabrels (oggi componente stabile dei Cure), che con il tempo si è rivelato uno dei collaboratori più preziosi di Bowie, uno di quei musicisti-catalizzatori che riuscivano a dare corpo alle sue visioni, come in passato lo erano stati Tony Visconti e Mick Ronson, Brian Eno e Nile Rodgers. Anche questo è un tratto che Bowie ha mutuato dalla pratica dell’arte contemporanea: l’artista non è necessariamente quello che “fa” le cose, che realizza il manufatto, ma è quello che sa usare il lavoro degli altri per dare corpo a un’idea.

Gabrels è l’unico a uscire vivo dall’esperienza dei Tin Machine e con la sua versatilità e intelligenza musicale è rimasto accanto a Bowie per tutti gli anni novanta e oltre. Con lui Bowie ha messo a punto 1. Outside, l’album sperimentale, un po’ cabaret postapocalittico e un po’ cyber-Grand Guignol che soprattutto dal vivo, con la collaborazione della band industrial rock Nine Inch Nails, aveva forgiato il suono del Bowie anni novanta. Con 1. Outside Bowie era rinato dalle sue ceneri: aveva ritrovato il gusto di suonare dal vivo e d’imporre al pubblico, ancora una volta, la sua nuova estetica e il suo nuovo sogno. Earthling, forse il vecchio album di Bowie che oggi vale più la pena di riascoltare, nasce proprio dalla gioia di quell’esperienza: è un album meno complesso e cerebrale di 1. Outside perché è finalmente concentrato solo sulle canzoni e perché il problema del suono, della materia prima da plasmare, era stato già risolto. Infatti i musicisti che si mettono al lavoro su quell’album sono gli stessi che avevano suonato con lui nell’ultimo tour.

Un suono-pittura
Il suono frastagliato, rumoroso e iperattivo di Earthling è fatto di tanti strati e di tante velature e, dal punto di vista dei colori, è il suono più pittorico e materico che Bowie abbia mai avuto. Gli elementi di drum and bass sono i più evidenti perché sono quelli più contemporanei ma in Earthling c’è molto industrial rock, molta dance, un po’ di metal e anche, qua e là, dei tocchi di jazz improvvisato. È un suono che sa di metallo incandescente, di reazioni chimiche pericolose; è pieno di bagliori esplosivi e di schegge volanti. Con questa materia tra le mani Bowie può concentrarsi sulle canzoni e per lavorare sceglie i Looking glass studios, lo studio di registrazione newyorchese del compositore Philip Glass: l’album viene fuori quasi da solo in poco più di venti giorni. Per scrivere le parole delle canzoni Bowie usa un sistema di cut-up computerizzato che Brian Eno aveva ideato per lui durante le sessioni di 1. Outside, una sorta di aggiornamento tecnologico della tecnica di scrittura casuale e post-surrealista di William Burroughs che Bowie aveva incontrato nel 1974, all’epoca in cui lavorava al suo album Diamond dogs. Dopo tanta sperimentazione Earthling è finalmente un album di canzoni-canzoni, ma i testi sono un buco nero interpretativo in cui ci si perde: ancora una volta tocca a noi ascoltatori trovare un senso, ancora una volta siamo noi che dobbiamo unire i puntini, cercare il bandolo di una matassa che forse neanche esiste. Bowie è tutto tranne che un artista didascalico, richiede la nostra attenzione e stimola il nostro senso critico e forse è proprio questa la ragione per cui oggi ci manca così tanto.

David Bowie, I’m afraid of americans, 1997. Regia di Dom and Nic


Earthling cattura l’attenzione fin dalla copertina, che mostra Bowie di spalle davanti a un verde paesaggio inglese. È nella posa romantica del Viandante sul mare di nebbia del pittore Caspar David Friedrich e addosso ha una marsina con lo Union Jack, la bandiera del Regno Unito. L’abito, disegnato per lui dallo stilista Alexander McQueen, richiama le uniformi di grandi condottieri inglesi come l’ammiraglio Nelson o il duca di Wellington ed è un simbolo di potenza militare, di sussiego colonialista, di stolido imperialismo. Guardandola da vicino (e abbiamo potuto farlo grazie alla mostra che ha girato per il mondo dopo la morte di Bowie) è tutta bruciacchiata e strappata, sembra uscita da una battaglia campale. È un capo che solo un sarto-artista come McQueen poteva realizzare: se il crollo dell’impero britannico potesse essere riassunto in un abito sarebbe questa marsina monumentale dall’architettura perfetta. Le pieghe simmetriche delle due code e la proporzione delle spalle di quell’abito hanno qualcosa di commovente. Ancora una volta Bowie ha saputo impadronirsi, da ladro meraviglioso, dell’arte altrui.

Un’istantanea dal futuro
Little wonder, il pezzo che apre l’album nonché il singolo con cui fu lanciato, è la ragione per cui a Earthling è rimasta a lungo attaccata l’etichetta di “album jungle”: le percussioni a mitraglia, spezzate e incalzanti, e certe distorsioni ricordano molto (per alcuni troppo) Firestarter dei Prodigy, che nel 1996 era stato un sorprendente numero uno nelle classifiche del Regno Unito. Eppure il ritornello che si apre sulle parole ripetute “far, far away”, è puro Bowie: uno squarcio melodico lontanissimo dalla sensibilità dei Prodigy. Dire che Little wonder è solo un pezzo jungle è riduttivo come scegliere di guardare il dito e non la luna. Looking for satellites è ispirata alla notizia, uscita nell’agosto del 1996, che su Marte ci sarebbero tracce d’acqua, quindi di vita. Bowie lo descrive come un pezzo sullo stato in cui ci troviamo oggi, “a metà strada tra tecnologia e religione”. Eravamo agli albori dell’internet di massa e Bowie cominciava già a interrogarsi sull’aspetto filosofico e metafisico dell’iperconnessione e di quello che avrebbe significato per noi terrestri, earthlings appunto..

Dietro all’armatura di un arrangiamento dissonante, sghembo e rumoroso, Battle for Britain (The letter) nasconde la melodia che più ricorda il Bowie delle origini. E a confondere le cose c’è un affascinante assolo di pianoforte di Mike Garson a cui Bowie aveva chiesto di improvvisare qualcosa nello stile dell’ottetto di Stravinskij e poi un “salto”, un glitch digitale, come se il cd fosse sporco o avesse un difetto di fabbricazione. Le parole, ancora una volta generate con la tecnica del cut-up, sono aperte a qualunque interpretazione. A me oggi colpisce il verso “don’t be so forlorn, it’s just the payoff / it’s the rain before the storm” (non essere così rassegnato, è solo la resa dei conti / è la pioggia prima dell’uragano); per prima cosa mi stupisce l’uso di un aggettivo colto e letterario come “forlorn” (solo i Pet Shop Boys oggi potrebbero scrivere un pezzo pop con un inglese così) e poi per il modo carezzevole con cui un verso così minaccioso viene cantato: che sarà mai? È solo la fine del mondo.

Seven years in Tibet è una grande ballata pop che Bowie si diverte a distorcere e a imbrattare di macchie di colore-rumore. L’ispirazione al libro omonimo di Heinrich Harrer e al film di Jean-Jacques Annaud (Sette anni in Tibet) è vaghissima e la canzone nasce da una traccia lontana che quella lettura e quel film gli avevano lasciato. A mio avviso è uno dei pezzi più belli del Bowie anni novanta ed è notevole anche la versione cantata in cinese mandarino che arrivò al numero uno delle classifiche di Hong Kong nel 1997.

Dead man walking era nata come omaggio all’attrice Susan Sarandon, grande amica di Bowie che aveva recitato nel film omonimo del 1995, ma poi si è trasformata, dopo aver visto Neil Young in concerto, in una riflessione sulla vecchiaia di una rockstar. Ancora una volta ci sono strati diversi di senso che si sovrappongono in un palinsesto di ispirazioni. Forse è il primo pezzo in cui David Bowie, passati i cinquant’anni, comincia a interrogarsi sulla sua mortalità e sul senso che può avere per lui continuare a fare questo lavoro. È un tema che tornerà in modo molto forte nel Bowie degli ultimi album prima della morte.

Paura degli americani
Insieme a Dead man walking, I’m afraid of americans, una composizione firmata Bowie/Eno, è il pezzo più memorabile (e commerciale) dell’album. La canzone era già uscita nel 1995 per la colonna sonora del film Showgirls di Paul Verhoeven e nasceva come caustica critica di uno stile di vita americano avido e brutalmente pervasivo che veniva imposto in tutto il mondo. L’idea di avere “paura degli americani” era nata durante un viaggio a Java in cui, nel bel mezzo del nulla, David Bowie vide spuntare l’inconfondibile M gialla del McDonald’s. I’m afraid of americans, riascoltata oggi, sembra una fotografia scattata nel futuro: ci sono già le divisioni, la paranoia, le polarizzazioni insensate degli Stati Uniti di oggi. E nel 1997 Donald Trump era ancora solo un riccone che faceva affari con i casinò e comparsate televisive. Il maxi single di I’m afraid of americans, grazie a una serie di remix di Trent Reznor dei Nine Inch Nails e del produttore Photek, è diventato una specie di ambiziosa suite di elettronica industriale quasi sfuggita dalle mani dello stesso Bowie.

Recuperare e riascoltare oggi Earthling non ha nulla di malinconico o di rétro: è un album talmente solido, sia dal punto di vista dell’architettura generale sia da quello della qualità dei singoli pezzi, che ha ancora tanto da dirci. Forse, paradossalmente, ci parla molto di più oggi di quanto potesse fare nel 1997. Quando David Bowie morì, nel gennaio del 2016, ci lasciò con la sensazione che il suo viaggio era appena cominciato, perché saremmo rimasti soli con il suo lavoro, con tutto il tempo per riascoltarlo, riscoprirlo e ristudiarlo. E Earthling può essere un ottimo punto di partenza.

David Bowie
Earthling
Bmg, 1997

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