“Il disegno è la probità dell’arte”, diceva il pittore francese Jean-Auguste-Dominque Ingres all’inizio dell’ottocento. E per probità non intendeva solo onestà, ma voleva dire che il disegno è la base di tutto, il primo modo per fissare l’immaginazione e trasformarla in forma. Una volta fatto il disegno, diceva, i tre quarti del quadro anche della più gigantesca, ambiziosa tela di storia sono fatti. A quel punto manca solo il colore, ma il resto c’è tutto: il ritmo, il tono, gli spazi, le figure. E soprattutto il racconto. Ingres sarebbe morto nel 1867 senza sapere cosa fosse il cinema, ma probabilmente afferrerebbe meglio di chiunque altro il senso della mostra A kind of language: storyboards and other rendering for cinema, aperta all’Osservatorio della Fondazione Prada a Milano fino all’8 settembre.

Guardando i più di ottocento render, storyboard, bozzetti e semplici appunti di altrettanti film che vanno dagli anni venti del novecento al 2024, la prima cosa che colpisce è la potenza del segno. Bello o brutto che sia, sbrigativo o curato, generico o ben riconoscibile, appena abbozzato o denso di dettagli, un disegno è sempre all’origine di una grande sequenza cinematografica che ci è rimasta nella memoria.

Dai robusti storyboard per I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille (1956) in cui si sente l’eco delle illustrazioni bibliche di Gustave Doré, fino al segno ingarbugliato di una penna che tocca appena il foglio negli appunti visuali di Pasolini per Mamma Roma (1962), dai quadri scenografici realizzati per Il grande dittatore di Charlie Chaplin (1940) fino ai segni misteriosi, quasi dei semi sparpagliati sulla carta, di certi disegni preparatori di Matthew Barney per il suo ciclo Cremaster (1994), il disegno è sempre all’origine di una grande idea, ed è proprio quello che permette alle tante, tantissime persone che realizzano un film di sintonizzarsi con la visione del regista. In alcuni momenti il disegno sembra assente: per esempio nei fogli di Ingmar Bergman per Persona (1966) che sono più un diario di lavoro che un vero e proprio storyboard o nei moodboard di Wim Wenders per Il cielo sopra Berlino (1987), pieni di foto della città scattate dallo stesso regista. Però quello è emerge sempre è un disegno mentale: un processo creativo catturato nelle sue primissime fasi.

Dune, diretto da Alejandro Jodorowsky (film non prodotto), 1973–1977. Storyboard di Max Douy per la scena “Extérieur Kaïtan porte mante religieuse, séq. 7 – Ech: 0,02”. - Institut Jean Vigo, fonds Max et Jacques Douy
Dune, diretto da Alejandro Jodorowsky (film non prodotto), 1973–1977. Storyboard di Max Douy per la scena “Extérieur Kaïtan porte mante religieuse, séq. 7 – Ech: 0,02”. (Institut Jean Vigo, fonds Max et Jacques Douy)

Il titolo della mostra A kind of language, “una specie di linguaggio”, viene da una riflessione del musicista e regista David Byrne che riconosce nello storyboard la schematizzazione estrema di un discorso più ampio e complesso. I documenti che vediamo in mostra sono strumenti di lavoro, non opere finite. Alcuni di questi fogli sembrano essere stati recuperati direttamente da un cestino della carta straccia: sono stati faxati, fotocopiati, spediti per email, attaccati al muro con puntine, calpestati, sporcati di caffè e accartocciati. Spesso non si sa neanche bene chi abbia realizzato certi disegni, ma la curatrice Melissa Harris ha fatto in modo che, quando possibile, il lavoro degli artisti coinvolti fosse riconosciuto.

Il primo problema quando si prepara una mostra con materiale tanto diverso e non sempre bellissimo da vedere a un primo colpo d’occhio è l’allestimento: come si monta un’esposizione di abbozzi, di idee allo stato larvale, di strumenti di lavoro? Non si può certo attaccare tutto sui dei muri bianchi come in una galleria d’arte, sarebbe il modo peggiore per tradire questa “specie di linguaggio”. L’intuizione che ha avuto Andrea Faraguna, dello studio di architettura Sub di Berlino, è stato quello di ricreare un ambiente di lavoro più che uno spazio espositivo. I fogli sono fissati su delle grandi tavole inclinate che ricordano i tavoli da disegno, i vecchi tecnigrafi, e sopra ognuno di questi tavoli è appeso un elemento corrispondente e inverso in modo da formare, davanti a noi, una finestra rettangolare che ricorda lo schermo del cinema. Al di là di quella cornice immaginaria le vetrate dell’osservatorio si aprono sulle intelaiature metalliche dei tetti della galleria Vittorio Emanuele, una veduta di Milano inedita e quasi steampunk che a sua volta sembra un film.

A sinistra: Nightmare 4 – Il non risveglio (A nightmare on Elm street 4: the dream master), diretto da Renny Harlin, 1988. Storyboard di David Lowrey. A destra: Il cielo sopra Berlino (Wings of desire), diretto da Wim Wenders, 1987. Disegno di Henri Alekans. - Courtesy David Lowery/New Line Cinema e Courtesy Wim Wenders Stiftung
A sinistra: Nightmare 4 – Il non risveglio (A nightmare on Elm street 4: the dream master), diretto da Renny Harlin, 1988. Storyboard di David Lowrey. A destra: Il cielo sopra Berlino (Wings of desire), diretto da Wim Wenders, 1987. Disegno di Henri Alekans. (Courtesy David Lowery/New Line Cinema e Courtesy Wim Wenders Stiftung)

Passeggiando attraverso questi tavoli abbiamo un’epifania dietro l’altra: la scena della doccia di Psyco di Alfred Hitchcock (1960) è illustrata fotogramma per fotogramma dal grande artista Saul Bass, autore dei più memorabili titoli di testa e manifesti della storia del cinema, e lo storyboard del mai realizzato Dune di Alejandro Jodorowsky ci ricorda che anche il disegno più coraggioso e spericolato può non bastare a contenere le visioni e le ambizioni illimitate di certi registi. Poi impariamo a riconoscere i vari stili di storyboard: ci sono quelli molto tecnici e sbrigativi che usano un segno anodino, simile a quello degli identikit della polizia, o quelli iperdettagliati che messi insieme potrebbero ricreare tutto il film sottoforma di cartone animato muto, come il gigantesco storyboard dell’horror coreano Train to Busan ( 2016). Lo storyboard animato di Grand Budapest hotel di Wes Anderson (2014), che pur rimanendo uno strumento di lavoro non rinuncia a tocchi di colore e a certi vezzi decorativi così cari al regista texano, o quello del film di 007 GoldenEye (1995), che ha la rapidità esecutiva e la facile efficacia di un vecchio fumetto d’avventure.

È però sui tavoli dedicati al lavoro di Walt Disney – in particolare a Biancaneve e i sette nani (1937), Fantasia (1940) e Pinocchio (1940) – che vediamo la saldatura ideale tra il disegno come “probità dell’arte” di cui parlava Ingres e il cinema. L’agilità e la leggerezza del segno, l’attenzione per il dettaglio espressivo e una solida conoscenza della storia dell’arte rendono i bozzetti di Disney forse le uniche opere d’arte fatte e finite che vediamo in questa mostra.

Il disegno qui trascende qualunque aspetto tecnico e quei fogli ingialliti dal tempo perdono la loro funzione di strumento di lavoro e ci portano al cuore del processo creativo, al cuore dell’idea. Quelli di Disney sono stati anche i primi storyboard propriamente detti. È a partire dal procedimento industriale del cinema d’animazione che gli altri cineasti hanno preso l’idea di disegnare tutto scena per scena prima di mettersi dietro la macchina da presa.

A kind of language è un viaggio all’interno del cinema tutto a ritroso, alla radice dell’idea, alla scintilla iniziale di un progetto e fa venire voglia di rinchiudersi in una sala buia a rivedersi tutto, dai Dieci comandamenti a Train to Busan.

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